Francesca Mannocchi
Susiya (Hebron)
Jinan Nawaj’a la notte scorsa non ha dormito, come quella precedente. Le sue notti, come quelle degli altri bambini del villaggio di Susiya sono abitate dalla paura di essere attaccati e uccisi dai coloni.
Ha tredici anni, ieri avrebbe dovuto essere il primo giorno di riapertura della scuola dopo il 7 ottobre, ma i soldati israeliani hanno suggerito al consiglio del villaggio di non far tornare i bambini sui banchi, così per lei e per gli altri sono passati quasi due mesi senza studiare.
Anche prima della guerra i suoi genitori non erano tranquilli quando usciva di casa per andare a scuola. Gli attacchi dei coloni erano continui, sia lungo la strada sia mentre erano in aula. Le è capitato tre volte di dover scappare via correndo, perché gruppi di coloni avevano circondato l’edificio cominciando a tirare pietre dentro le aule piene di bambini.
Susiya, 15 chilometri nelle colline a sud di Hebron, è una piccola comunità di famiglie palestinesi, per lo più dedita all’agricoltura e alla pastorizia. I circa quattrocento abitanti vivono nelle tende o nelle baracche di legno e terra. Attorno a loro gli insediamenti illegali e gli avamposti dei coloni palestinesi. Il più grande insediamento, nella terra adiacente al villaggio, è stato costruito nel 1983. Prima sono arrivati i piccoli caravan, poi sono arrivate le infrastrutture, l’elettricità e l’acqua, così i caravan sono diventati case. Per loro, da decenni, manca tutto.
Una decina di giorni fa, otto coloni sono entrati di notte nel villaggio. Jinan stava dormendo su un materasso steso a terra nella stanza che divide con i suoi genitori, le due sorelle e il fratello. Uno dei coloni ha rotto la finestra, ha strappato la tenda con cui si è coperto il volto, è entrato nella stanza seguito da altri due uomini. Hanno puntato le pistole verso i bambini intimando i genitori di lasciare la casa prima possibile altrimenti li avrebbero uccisi e avrebbero dato fuoco a tutta Susya. Jinan piangeva, pensava che sarebbe morta. Ha cominciato a gattonare fino a raggiungere le braccia di sua madre e solo lì, dice, si è sentita al sicuro. Si è rannicchiata a terra, sentiva le grida del nonno dalla tenda vicino, e i coloni che urlavano «andatevene in Giordania, o vi faremo fare la fine dei vostri amici di Gaza». Dopo aver minacciato tutta la comunità sono tornati sul camioncino che li aspettava al bordo della strada e sono andati via.
Una settimana prima un colono che indossava un’uniforme dell’esercito è arrivato a bordo di un bulldozer, seguito da altre due auto che bloccavano le vie d’accesso. Il bulldozer ha distrutto le cisterne d’acqua, mentre gli altri coloni distruggevano le tubature a terra.
Il villaggio ha subìto anni di intimidazioni da parte dei coloni che vivono nelle vicinanze, ma dal 7 ottobre in tutta la Cisgiordania la violenza dei coloni è aumentata in modo significativo.
Secondo le Nazioni Unite nelle ultime settimane 1200 persone che facevano parte di 15 diverse comunità beduine e agricole sono state costrette a lasciare o demolire le tende e le case in cui vivevano e il bestiame che dava loro da vivere. Per anni l’esercito israeliano non è intervenuto per proteggere i palestinesi dalle demolizioni e dalle minacce, con il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu alla fine di dicembre, a capo di un governo che comprendeva attivisti di estrema destra che sostengono l’annessione della Cisgiordania, la vita per i palestinesi è diventata ancora più dura, poi negli ultimi due mesi, dopo l’attacco di Hamas, i coloni che facevano parte delle “squadre di risposta rapida” degli insediamenti sono stati reclutati in servizio di riserva dall’esercito e ora agiscono in uniforme con armi, e equipaggiamento militare.
Gli insediamenti hanno iniziato a ricevere armi dal governo israeliano, per iniziativa del ministro della Sicurezza Nazionale di estrema destra Itamar Ben Gvir che ha dato il via libera alla distribuzione di armi alle comunità di coloni, così i gruppi di volontari armati locali si stanno espandendo e diventando più formali.
«Metteremo il mondo sottosopra in modo che le città siano protette», aveva detto a metà ottobre il ministro Ben Gvir.
Gli attacchi che hanno provocato lo sfollamento e lo sgombero delle comunità sono avvenuti principalmente nell’Area C, creata con gli Accordi di Oslo nel 1995: doveva essere gradualmente trasferita alla giurisdizione palestinese, ma rimane ancora sotto il pieno controllo amministrativo e di sicurezza israeliano e costituisce circa il 60% della Cisgiordania occupata. In tutta l’Area C ai palestinesi viene rifiutato il permesso di costruire o espandere strutture esistenti, tanto che negli ultimi anni – secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) – quasi tutte le richieste di pianificazione presentate dai palestinesi sono state respinte mentre le autorità israeliane hanno consentito l’espansione delle infrastrutture negli insediamenti ebraici.
Jinan non può andare a scuola e ha paura a uscire di casa. Quando si affaccia alla finestra, da lontano vede i bambini israeliani giocare mentre lei si nasconde. Si sente senza forze. Vorrebbe vivere come tutti i bambini del mondo, senza aver paura di addormentarsi, libera di camminare con i suoi coetanei per imparare l’inglese. Vuole parlarlo bene per raccontare a tutti gli stranieri che incontra cosa subiscono i bambini palestinesi che vivono nelle colline di Hebron. Quando pensa al futuro, la prima frase che le viene in mente è che vorrebbe vivere in uno Stato palestinese finalmente libero, solo poi confessa il desiderio intimo di diventare una dottoressa. Lo dice con lo sguardo che è fatto insieme di speranza e rassegnazione. Sa che per lei è un sogno anche l’istruzione superiore.
La notte, prima di addormentarsi, pensa ai bambini di Gaza, e le risuona in testa la frase del colono che ha aggredito suo nonno: farete la stessa fine. Eppure, nelle ore in cui non dorme e trema a ogni rumore in strada, non ha mai pensato di andare via. Vuole restare sulla sua terra.
Nel suo zaino c’è un album da disegno. L’ultimo compito che aveva fatto porta come titolo: illustra come vorresti fosse casa tua. Jinan ha disegnato una strada. Una strada libera, senza massi che impediscano il passaggio. Perché anche le strade di accesso al suo villaggio sono state bloccate dai coloni, come altre decine di strade chiuse in tutta la Cisgiordania dal 7 ottobre, dai soldati ai posti di blocco o con terrapieni appena scavati. Oggi gli abitanti di Susiya non posso entrare con le auto nella loro area, possono muoversi solo a piedi o sui muli.
I gruppi palestinesi e israeliani per i diritti umani continuano a tenere il conto degli abusi, Yaesh Din, un gruppo di attivisti israeliani che da anni monitora la situazione in Cisgiordania, aggiorna costantemente l’elenco delle violenze ai danni delle comunità palestinesi. Poche settimane fa a Qusra, i coloni hanno distrutto 500 ulivi e coperto di cemento il terreno agricolo dei contadini e pastori palestinesi che lo lavoravano. Pochi giorni dopo sono stati bruciati i campi di ulivi tra i villaggi di Burin e Huwara, e a Qaryut, i coloni hanno costruito una barriera di rocce per impedire ai pastori di far ritorno ai villaggi, sparando contro tutti quelli che provavano a riavvicinarsi.
Anche Raw’a Jabareen ha tredici anni, vive nel villaggio di Shab Albotom. Suo padre è stato costretto a sfollare tre volte, ma cosa sia la prevaricazione, Raw’a l’ha imparato tra le macerie di casa di suo zio, a cui un colono ha distrutto casa.
Il giorno dopo, suo zio le ha detto che doveva abituarsi, perché quella sarebbe stata anche la sua vita: «Siamo abituati a ricominciare sempre. Ci vuole molto tempo per mettere insieme le tende e i villaggi. Tempo ed energia. Per distruggere, invece, bastano pochi secondi e una vita intera scompare in un attimo».
Tutti i bambini lo imparano da piccoli. Mentre si guardano intorno, non temendo, ma aspettando che arrivi qualcuno a spaventarli. Perché succede ormai ogni giorno, ogni notte.
Nemmeno Raw’a può andare a scuola, nel suo villaggio non sono intimidite solo le famiglie ma anche le insegnanti.
«Il sogno dei coloni, dice, è che tutti noi lasciamo la nostra terra, così potranno costruire sulle fattorie dei nostri nonni, sulle case dei nostri genitori. Sulle nostre scuole. Questo è quello che vogliono, ma non ce ne andremo. Perché non abbiamo nessun altro posto dove vivere, tranne questo. E perché quella su cui stiamo camminando è la nostra terra».
Quattro anni fa a suo padre è arrivato l’ordine di demolizione della loro casa. Raw’a era appena una bambina, ricorda di averlo visto piangere e di aver deciso in quel momento, sentendolo parlare dei tribunali che non difendevano i palestinesi, che da grande sarebbe diventata un’avvocata.
Vuole poter dire alle persone che dovrebbero proteggere chi protegge la propria terra. E che di fronte ai soprusi bisogna rimanere forti e non cedere mai alla violenza. Rimanere forti e sopportare. Perché anche a lei hanno insegnato che non si risponde violenza alla violenza e che restare è la forma più coraggiosa di resistenza all’occupazione.