ROMA — Nessuno sconto al Parlamento né sul fine vita, né sul destino dei figli delle coppie omogenitoriali. Né tantomeno sul ritardo, già cinque mesi, nella scelta del giudice mancante. Da ex deputato del Pci-Pds esperto delle dinamiche politiche, ma anche costituzionalista qual è Augusto Barbera, oggi al vertice della Consulta, arriva la secca bacchettata alle Camere, in clamoroso e colpevole ritardo su due leggi urgentissime.
Un Barbera che sfoggia l’arma dell’ironia quando butta lì quell’ «aspettando Godot» per il quindicesimo giudice che non c’è, con l’imbarazzo, per lo stesso presidente, di fronte a una votazione che finisce alla pari, sette a sette, di essere costretto a far pendere la bilancia da una parte o dall’altra.
Nella grande sala del Belvedere, di fronte a lui sono seduti Mattarella, Fontana e La Russa. E c’è anche Nordio. Nonché Mantovano. Gli strali di Barbera — perché di questo si tratta — hanno i “colpevoli” di fronte. Un Parlamento inadempiente. Perché «nei casipiù significativi il legislatore non è intervenuto, rinunciando a una prerogativa che gli compete, obbligandoci a procedere con un’autonoma soluzione inevitabile in forza dell’imperativo di osservare la Costituzione».
Un doppio errore dunque. Perché sia sulla sentenza Cappato che sui figli delle coppie gay «il silenzio del legislatore sta portando, nel primo, a numerose supplenze delle assemblee regionali; nel secondo, al disordinato e contraddittorio intervento dei sindaci preposti ai registri dell’anagrafe». E che succede se le Camere continuano a baloccarsi? Barbera non ha dubbi, «se resta l’inerzia, la Corte non potrà non intervenire ». E già guarda a un’ordinanza del tribunale di Firenze su un malato di Sla che non assume farmaci salvavita e che potrebbe consentire alla Corte di codificare i famosi quattro punti fissati nel 2019. Affermazioni sottoscritte subito da Marco Cappato, e poi dal Dem Zan e da Magi di +Europa, mentre protesta Pro-Vita.
Ma Barbera, per la sua storia, si può ben permettere di essere al di sopra delle parti, come aveva già fatto nell’intervista con Repubblica del 17 gennaio. Riconosce al Parlamento il ruolo di «attore costituzionale » rispetto alle modifiche della Carta, ma richiama la Corte «a essere altrettanto attenta a non costruire, con i soli strumenti dell’interpretazione, unafragile “Costituzione dei custodi”». E arriva a bacchettare i giudici che invece di ricorrere alla Consulta decidono di «disapplicare» le leggi. Sono tutti convinti che ce l’abbia con la giudice di Catania Iolanda Apostolico che ha disapplicato la legge Cutro, seguita poi da molti suoi colleghi. Ma se «si può comprendere (ma non giustificare) che il giudice avverta l’esigenza di approntare una risposta, la più rapida ed efficace possibile », la strada è una sola, bussare alla porta della Consulta, in grado di decidere «nel giro di pochi mesi ». Prevenendo i possibili mal di pancia, Barbera puntualizza di «non voler negare il ruolo fondamentale che il giudice comune può e deve esercitare», che però dev’essere scevro dagli «eccessi valoriali da cui talvolta non pochi di essi si sentono pervasi».
Infine il capitolo su Nicolò Zanon, ex vicepresidente della Consulta fino all’11 novembre 2023, autore di un libro di Zanichelli sui dieci casi di opinioni dissenzienti. Barbera sottolinea «con forza» che il segreto della camera di consiglio è «un istituto necessario per assicurare la libertà e l’indipendenza della Corte». Ricorda che dopo le prime uscite di Zanon la Corte già lo bacchettò. Adesso parla di «una scorrettezza certamente grave».
Aggiunge che «se c’è una notizia di reato, qualche procura può intervenire». Chiude così: «Ma almeno finché sarò io presidente non partiranno denunce penali». Certo, ricorda, «c’è anche l’articolo 276 del Codice di procedura civile che si estende alla Corte». E che parla delle decisioni deliberate “in segreto” nella camera di consiglio.