Reverend Robert Walker Skating on Duddingston Loch by Henry Raeburn, c1795
8 Ottobre 2023Sorvegliare e pulire
8 Ottobre 2023La parabola espressiva di Bruno Barilli si svolge all’insegna dei viaggi e della musica. Non è un caso che il suo libro d’esordio, incentrato sul melodramma, si intitolasse Delirama che in serbo significa «vagabondo» e che Lo stivale, ultimo volume apparso nel 1952, pochi mesi dopo la scomparsa dell’autore, fosse dedicato a corrispondenze realizzate fra Bolzano e Taormina. Tra i due poli una serie di titoli che Enrico Falqui dispose lungo le coordinate della divaricazione tematica presente nelle opere vallecchiane del 1963: Il paese del melodramma e altri scritti musicali e Il libro dei viaggi. È singolare d’altronde che la desueta collazione di reportage su Parigi, ufficialmente impressa da R. Carabba nel 1938 (ma torneremo sull’argomento), sia stata inclusa nel primo volume di Vallecchi, quello che contestualizza le cronache di taglio musicale.
Se non è facile sviscerare dall’opera di Barilli il tema del vagabondaggio intellettuale da quello espressamente consacrato al tarlo melodico che si insinua sempre e comunque, alla stregua di un’ossessione prepotente ed esclusiva, mi sembra che Parigi avrebbe potuto figurare, in virtù dell’argomento trattato, in maniera più pertinente nel Libro dei viaggi. Ma tant’è. Bisogna riconoscere a Falqui d’essersi adoperato a più riprese, al pari di Emilio Cecchi, nel sostenere una causa avvocatesca persa ab origine, usando cavilli quanto mai persuasivi: «E succede che, a volte, l’intensità della visione brucia la visione stessa, non lasciandone sopravvivere più d’un negromantico fumo». Poteva inoltre succedere che a questo funambolo della parola, recante a spasso «la finezza del suo gran volto equino» (Ungaretti), venisse fatta l’elemosina per strada a causa dell’aspetto trasandato, come descritto con una punta di civetteria, se la memoria non inganna, nel Viaggiatore volante (1946), anticipando la figura di quell’«Orfeo senza denti» ormai sopravissuto a sé medesimo.
Le Edizioni Quodlibet ripropongono ora Parigi (pp. 192, € 14,00), ben curato da Antonio Castronuovo, corredato dei sedici disegni di Milena Pavlovic Barilli, figlia dello scrittore, apparsi nell’editio princeps. Il libro accoglie tredici prose riguardanti il soggiorno di Barilli nella ville lumière durante il periodo delle années folles, dove si trovava in qualità di corrispondente italiano della rivista «Bifur», fondata con Ribemont-Dessaignes dall’amico Nino Frank, che si proponeva, dopo essersene distaccato, di riprendere gli stilemi di «900», sperimentati insieme a Bontempelli. Esiste al riguardo, nel numero monografico allestito da «Galleria» nel 1963, un ritratto dello stesso Frank intitolato Bruno Barilli a Parigi, dove si legge che al Dôme frequentava Ilja Erenburg, non simpatizzando con Joyce (in un taccuino annotò: «James Joyce. Materia cerebrale che cola da un’orribile ferita»). La sua presenza d’altronde destava sorpresa e inquietudine: «Valery Larbaud spalancava tanto d’occhi davanti allo spilungone romantico sempre un po’ barbuto».
Suddiviso per capitoli, Parigi si configura alla stregua del journal di un eccentrico flâneur che segue alcune suggestioni – soprattutto di taglio musicale: l’Opéra, i Black Birds, Giacomo Lauri Volpi, Alfredo Casella, le orchestrine jazz –, accantonando quelle decisive. Nel capitolo dedicato a Montparnasse, «sordido nido di apaches, di misantropi, di anacoreti e di beghine», figura solo un vago accenno alle nuove tendenze pittoriche di Picasso, de Chirico, Derain, Braque, Foujita. A questi pittori antepone Jean Lurçat e Giuseppe Stella, artista napoletano emigrato a New York e conosciuto al Dôme. Non c’è traccia dell’esperienza surrealista, tanto meno di quella dadaista dopo l’avvento dirompente di Tzara a Parigi nel 1919. Preferisce perdersi al Museo Grevin, ammaliato dalle cere di personaggi storici e vedettes dello spettacolo, nonché descrivere luoghi celebrati come il Moulin Rouge, ricavandone tuttavia una gamma di capricci deliziosamente idiosincratici. Eppure frequenta Campigli e Savinio che ci lascerà al riguardo preziose osservazioni: «Passa da uno stile dorato, dalle parole più bionde, al fosco e ai lampeggiamenti apocalittici, eppure nulla è in lui di eccessivo e di arbitrario». Ma queste omissioni, queste rimozioni vengono riscattate da uno stile «alto», secondo taluni con addentellati barocchi, tendente all’ipotiposi, che fece scrivere a Montale che è «come se a tratti si scoprisse sotto la mezza tuba del saltimbanco l’alloro sempiterno del giovane Apollo».
Qualche osservazione in merito alla data di stampa. Le copie superstiti dell’edizione originale, spesso prive della sovracopertina in cui campeggia un disegno di Di Bene, riportano nel frontespizio una pecetta incollata con la dicitura «R. Carabba Editore 1938-XVI». Castronuovo, nella sua accurata postfazione, sostiene che la scritta che appare sotto la pecetta sia la seguente: «Giuseppe Carabba Editore Lanciano». Considerato che le prose confluite nel volume risalgono al periodo 1928-’32, si arriva alla conclusione che Parigi sia stato impresso «prima del cambio di ragione sociale del febbraio 1937 e nulla toglie che ciò sia accaduto in quella fine del 1934 annunciata dal “Giornale della Libreria”». Il libro fu distribuito soltanto nel 1938, a causa della sopravvenuta crisi finanziaria. Nelle note bibliografiche del summenzionato volume inaugurale delle opere vallecchiane, Falqui riporta la data del 1933, in parte confermando le argomentazioni di Castronuovo.
In seguito alla liberalizzazione dei diritti vedono la luce, quasi contemporaneamente, altre due opere di Barilli: Il sorcio nel violino (Pendragon, pp. 128, € 15,00) e Il paese del melodramma (Manzoni Editore, pp. 216, € 20,00). Si tratta di due titoli fondamentali, pubblicati rispettivamente nel 1926 dalla Bottega di Poesia e nel ’29 da Carabba, con copertina realizzata da Scipione. L’autore aveva l’abitudine di riciclare le stesse prose, dopo averle anticipate in giornali e riviste, infarcendole di una serie infinita di varianti. Tale modus operandi traspare soprattutto nei libri di argomento musicale, sulla falsariga di un contrappunto bachiano. Indispensabile è il quadro sinottico allestito da Luisa Avellini e Andrea Cristiani in appendice all’edizione critica del Sorcio nel violino del 1982, cui seguirono Il paese del melodramma (’85) e Capricci di vegliardo e taccuini inediti (’89), progetto editoriale einaudiano intrapreso con supervisione di Mario Lavagetto.
Parte dei testi accolti nel Sorcio del violino, la cui ristampa è sempre curata da Castronuovo, apparve sulla rivista «La Ronda», di cui Barilli è stato uno dei principali collaboratori. I redattori si proponevano di contrastare le smargiassate dei futuristi, sbandierando un rappel à l’ordre inneggiante al «bello stile» di matrice leopardiana (Operette morali e Zibaldone più che i Canti) e manzoniana, dichiarandosi al tempo stesso aperti alle suggestioni internazionali e refrattari a ogni contaminazione politica. Salvo aderire in blocco, quando la rivista smise le pubblicazioni nel 1923, al regime fascista (Baldini e Cecchi diventarono accademici mentre Cardarelli scrisse un’ode alla Camicia nera).
Il paese del melodramma riproposto dalle Edizioni Manzoni presenta contestualmente anche Parigi, senza i disegni della figlia Milena, ma con l’ausilio di alcune fotografie d’epoca. Nella postfazione, Alessandro Zignani si sofferma ad analizzare il complicato rapporto con la musica. Barilli compose infatti due melodrammi (Medusa nel 1910, Emiral nel 1915) dopo gli studi effettuati in Germania con Felix Mottl, allievo di Bruckner e rinomato direttore d’orchestra wagneriano, salvo intraprendere la carriera di critico, a proposito della quale precisò Cecchi: «Le sue “stroncature” son festose come biglietti di auguri e partecipazioni nuziali». Il riferimento riguarda anche l’avversione per Strauss, Debussy, Brahms (altalenante il giudizio su Stravinskij), invisi al repertorio operistico dell’amatissimo Verdi. Un personaggio così sofisticato e complesso, apprezzato da autori insospettabili come Arbasino e Manganelli, sembra derivare da un suo ineccepibile aforisma: «Meglio essere decadenti che scadenti».