Dal museo di San Marco alla chiesa di San Domenico viaggio tra i capolavori del frate che ispirò Michelangelo Scrive di lui Vasari: “ Era umanissimo e molto sobrio, e castamente vivendo, dai lacci del mondo si sciolse”
di Sergio Risaliti
Se lo hanno chiamato Angelico ci sarà una ragione. Sono convinto che avesse una scala per salire in cielo, fare due chiacchiere con gli angeli e poi tornare nella sua angusta stanzuccia nel convento di San Marco, dove ha vissuto gran parte della vita: «Veramente fu fra’ Giovanni Santissimo e semplice ne’ suoi costumi…Fu chiamato al secolo Guido […]; poi frate di San Marco di Fiorenza e fu nominato frate Giovanni Angelico de’ frati predicatori». Così Giorgio Vasari introduce Beato Angelico, figlio di un tale di nome Piero, poi aggiunge: «Era umanissimo e molto sobrio, e castamente vivendo, dai lacci del mondo si sciolse, usando dire spesso che chi faceva dell’arte aveva bisogno di quiete, e di vivere senza pensieri, e d’attendere all’anima, e chi fa cose di Cristo, con Cristo debba star sempre».
Pare sia nato intorno al 1385 nei pressi di Vicchio nel Mugello, patria anche di Giotto. Forse perché l’aria e l’acqua da quelle parti furono miracolose. Antonio Manetti ci ricorda che «è sotterrato a Roma nella Minerva in luogo degno; non lasciò mai ufficio ecresiasticho per dipingere e fu di santa vita» fino al 1455 anno della sua ultima salita in cielo. Le sue opere sono abbaglianti d’oro e di lapislazzulo, scaldano il cuore, elevano la mente, la luce che emanano non è di questa terra. Fulgido esempio, un faro nella notte, è l’Incoronazione della Vergine (1432) oggi agli Uffizi, assieme allaMadonna di Pontassieve (1435). Nel grande museo fiorentino si trovava anche laTebaide (1420 circa), trasferita nel Museo di San Marco da poche settimane, dove continuerà ad affascinare le scolaresche del mondo. In fondo è come un cartone animato, un fumettone, con tanti minuscoli eremiti immaginati in un paesaggio di cartapesta. Dopo molte e incerte attribuzioni, pare finalmente condivisa quella all’Angelico. Che il frate sia stato anche notevole miniatore di codici si palesa nelle predelle delle sue pale, in questa Tebaide e sopratutto nell’Armadio degli Argenti, una serie di piccoli dipinti che componevano un ex voto per la Santissima Annunziata. Questi preziosi pannelli e tante altre opere del Beato Angelico si trovano nel Museo di San Marco, di cui merita esaltare il nuovo allestimento, impeccabile. La visita al museo contempla anche quella agli ambienti del convento, alle celle, al refettorio, al corridoio e alla sala capitolare dove si ammira la teatrale e monumentale Crocifissione. Un patrimonio di opere su tavola, di codici, di pareti affrescate che non ha paragoni al mondo, un ecosistema perfetto che richiede contemplazione e passi lenti. Gli affreschi, in particolare, sono il perfetto risultato delle conversazioni tra il pittore beato e l’abate Antonino Pierozzi, un santo, studioso eccelso, grande predicatore, figura centrale nella Firenze di quel tempo. La scena con ilNoli me tangere (1438-40), come dire Vietato toccare, è forse una delle più belle tra quelle affrescate nelle piccole stanze. Vi si riconosce Maria Maddalena sorpresa di incontrare il Risorto nelle vesti di un giardiniere, con Lui che la tiene alla lontana con un semplice gesto della mano, come fosse un arbitro al centro del campo. La veste di Gesù è immacolata, il Messia pare eseguire un passo di danza, sfiora appena il prato fiorito. Il suo è un corpo astrale e per questo non può essere toccato. La stessa transustanziazione celestiale del pigmento in luce si legge nella Trasfigurazione (1443 circa), dove Cristo allarga le braccia e sprigiona un’energia che è di ordine superiore, tant’è che dà forma a un nucleo ovoidale, come l’Inizio del mondo di Costantin Brancusi.
All’epoca dell’Angelico, il convento, commissionato da Cosimo il Vecchio e progettato da Michelozzo intorno al 1437, doveva apparire come un alveare, ben organizzato, con un gran daffare, e molto, molto silenzio nella biblioteca e nei chiostri. Si pregava, si leggeva e studiava, si dipingeva e miniava. Il posto doveva profumare di incenso e rose, di aranci e gigli. La vita beata di Fra Angelico si è consumata tra le mura di questo perfetto microcosmo, salvo qualche soggiorno a Cortona e Roma e piccole tappe a Urbino e Prato per speciali commissioni. La Madonna delle ombre ( forse post 1450) affrescata nel corridoio centrale del convento è una vera e propria acrobazia formale. La quinta architettonica dietro alle spalle della Madonna, seduta in trono con il bambino regale, è protagonista della composizione assieme alla luce che provenendo da sinistra provoca le ombre sottili delle colonne e dei capitelli, tanto da funzionare come una meridiana. La striscia di cielo in alto ha il colore della notte poco prima dell’alba, alludendo al ritmo delle preci in obbligo ai frati. Bellissima a poca distanza è la meravigliosa Annunciazione (1440 circa o post 1450), tema su cui il frate si è cimentato più volte. Solo per quest’opera avrebbe meritato la beatificazione, avvenuta infine con papa Giovanni Paolo II nel 1982. Qui prendete fiato e trattenetelo, fermatevi a considerare il piumaggio delle ali dell’angelo annunciante. Ha qualcosa del pavone e dell’arcobaleno e spicca in confronto all’intonaco così austero del loggiato di casa Maria, con la Vergine seduta su un umile sgabello, pronta all’investitura miracolosa. La parte sottostante, con i finti marmi, è macchiata da piccoli getti di colore, una sorta di action painting realizzato in anticipo di secoli su Jackson Pollock.
A detta di molti scrittori, poeti e perfino scienziati, Fra Angelico ha imbrigliato i più minuti corpuscoli di luce nella superficie dei suoi dipinti. Ogni centimetro quadrato è intriso di quanti e bosoni, di neutrini, di particelle elementari, e tutto è veramente divino. Leggendo Vasari ricorre tante volte e non a caso la parola “ paradiso”. Non si pensi però a qualcosa di troppo astratto e surreale. Beato Angelico fu artista ben strutturato nel disegno e seppe impostare le sue scene, gli scorci, gli ambienti rispettando a suo modo le nuove leggi della prospettiva brunelleschiana. I corpi e i volti, dimostrano inoltre piena conoscenza della lezione di Masaccio, perfino qualcosa del linguaggio analitico di matrice nordica. Fu però il suo un umanesimo rettificato dalla fede e intriso di poesia, un naturalismo plasmato e conformato dalla teologia di San Tommaso e dalla conoscenza di Dante. In altre parole fu la sua «un arte della Chiesa », come scriveva Luciano Berti, distinta da quella laica degli altri pionieri del rinascimento fiorentino.
Il nostro viaggio dovrebbe però iniziare dalla chiesa di San Domenico a Fiesole, dove l’Angelico dimorò inizialmente e dove si conserva ancora oggi una sua bellissima pala La Madonna in trono con angeli e Santi eseguita intorno al 1424 per l’altare maggiore. Da tempo ha trovato posto in un’altra zona più laterale della chiesa. Per Giorgio Bonsanti si tratta di uno «dei vertici della pittura tardo gotica a Firenze». La Vergine porge al figlioletto una rosa bianca, simbolo di purezza, e una rossa, allusione alla passione. L’originale è stato ritoccato da Lorenzo di Credi ai primi del Cinquecento, «perché forse pareva che si guastasse», così scrive Vasari. Nella medesima chiesa fiesolana, l’Angelico aveva realizzato la tavola dell’Annunciazione, vertice dell’arte di ogni tempo, conservato al Prado a Madrid. Questo lavoro pare ispirato dalla lettura degli ultimi canti della Divina Commedia. Non serve essere esperti di arte, per restare folgorati dalla poesia dolcissima e celestiale dei suoi colori e dalla luminosa irradiazione, che non è affatto arte per arte, ma visione di asceta trasmessa con un linguaggio di fanciullino. «In una cappella della medesima chiesa, è di sua mano, in una tavola, la Nostra Donna anunziata dall’angelo Gabriello, con un profilo di viso tanto devoto, delicato e ben fatto, che par veramente non da un uomo, ma fatto in Paradiso». Un raggio costruito con fili dorati di minuscolo ragno trasmette via etere il messaggio, incomprensibile a mente umana. Assieme all’Annunciazione, nella stessa chiesa di San Domenico, vi si trovava anche l’Incoronazione della Vergine oggi al Louvre. Stava «allato alla porta, entrando a man manca, nella quale Gesù Cristo incorona Nostra Donna in mezzo a un coro d’angeli, et in fra una multitudine infinita di Santi e Sante, tanti in numero, tanto ben fatti e con sì varie attitudini e diverse arie di teste, che incredibile piacere e dolcezza si sente in guardarle ». Infatti, gli astanti con le loro aureole sono come trafitti da passione mistica, gli occhi sono traslucidi, inebriati di letizia dalla celestiale visione. Hanno faccine lisce lisce, quasi di neonati.
Torniamo al museo di San Marco, prendiamoci tutto il tempo necessario, davanti alla Pala di Annalena(1430), con i suoi metafisici colori, allaDeposizione di Cristo dalla croce (1432), al monumentale Tabernacolo dei Linaioli (1433), al Compianto su Cristo morto (1436), e alla Pala di San Marco(1438-40) con i Santi Cosma e Damiano inginocchiati su un tappeto anatolico con segni zodiacali. In basso sull’orlo di quel dipinto c’è un quadro nel quadro dedicato alla crocifissione di Gesù. Di particolare pregio sono le predelle, tra tutte quella con la guarigione miracolosa del diacono Giustiniano ad opera dei due fratelli guaritori e protettori dei Medici,. La scena appare a tutti gli effetti come costruita per un piccolo teatrino o un precocissimo schermo televisivo. L’invenzione dovette suscitare l’ammirazione del giovane Michelangelo, perché un suo disegno giovanile è evidentemente ispirato a quella predella. Anche laDeposizione (Pala di Santa Trinita) deve aver folgorato il Buonarroti, tanto è evidente la memoria del volto assopito di Gesù, quella del suo perfettissimo corpo, come nella Pietà Vaticana. Tornano alla mente certi versi del Petrarca che dicono «morte bella parea nel suo bel viso».
Nel Giudizio universale, realizzato a suo tempo per la chiesa di Santa Maria degli Angeli nel 1431 circa, impressiona altresì la costruzione scenografica delle lastre tombali, una sequenza minimale degna di Donald Judd. Le tombe scoperchiate sono installate in rigorosa fuga prospettica. Il solito Vasari descrive bene l’evento finale, « fitto di figure piccole nel quale con bella osservanza fece i beati bellissimi e pieni di giubilo e di celeste letizia; et i dannati apparecchiati alle pene dell’Inferno in varie guise mestissimi». Prima di lasciare questo piccolo eden artistico non possiamo tralasciare l’affresco con San Domenico adorante Gesù in croce. Le fonti dicono che Beato Angelico non fece mai Crocifisso, « che e’ non si bagnasse le gote di lagrime». Non si stenta a crederci.
L’autore è direttore artistico del Museo Novecento