Chiedimi se sono felice – Samuele Bersani
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7 Giugno 2022Ex operaio di Piombino, ha iniziato con una macchina regalata da Pasolini Ora la mostra a Pontassieve dedicata alle immagini dei bambini e la guerra
diFulvio Paloscia
Una delle foto che ama di più non è sua. Però lui è lì, dentro quello scatto africano. In una mano la macchina fotografica, l’altro braccio circonda le spalle di un ragazzino che guarda verso un punto non precisato, come se pensasse all’atto commesso subito prima del clic. « Era un soldato. Io l’avevo convinto a buttare via l’arma. “ Con questa non si conquista niente” gli avevo detto». Pino Bertelli e l’adolescente sono in cammino. Non si sa verso dove. Forse verso quell’utopia che è il senso di tutto il lavoro del fotografo di Piombino. Perché l’utopia, dice, «aiuta a procedere verso la conquista di una felicità personale e collettiva. Condivisa, quel che è mio è tuo. Non importa se si realizza oppure no. Preferisco una cosa irrealizzabile che parla d’amore piuttosto che una realizzata che parla di morte».
Amore e morte sono il senso del suo essere fotografo di strada. Che è stato nei territori di guerra come Iraq, Congo, Eritrea, Etiopia « non per testimoniare, ma per dare un monito. La fotografia non serve a niente se non dice qualcosa, possibilmente contro qualcuno » . La mostra L’infanzia rubata. La guerra negli occhi, fino al 15 ottobre alla Sala delle Colonne nel Palazzo Comunale di Pontassieve, curata da Antonio Natali e Adriano Bimbi, è un atto d’accusa, in 31 fotografie, contro i conflitti come metodica, programmata sopraffazione degli indifesi. Bambini in lacrime, oppure con la bocca piegata in sorrisi strani, quasi la guerra fosse un gioco. Bambini in divisa, con la sigaretta tra le labbra e l’espressione da duri che tradisce lavoglia di diventare adulti nel senso più deteriore: sopraffazione, violenza.
Tutti guardano diretti nell’obiettivo. E quindi ci inchiodano. Perché negli occhi, dice Bertelli, «c’è la verità del dolore. Nell’attimo dello scatto, tornano ad essere bambini che qualcuno finalmente accoglie con la loro bellezza attraverso la macchina fotografica. Le foto sono il frutto di un rapporto empatico tra la mia disobbedienza civile e il loro dolore » . Bertelli non rivela a quale conflitto si riferiscano le fotografie esposte: « La sociologia dell’immagine non mi interessa. La sofferenza è universale, quindi perché specificare un luogo preciso?».
La guerra fa crescere in fretta. Come la strada. Lui ha calpestato quella operaia di Piombino, « dove ho patito il marchio della differenza. Però fu un’infanzia felice, perché ciò che mancava ( ovvero, tutto) ce lo andavamo a prendere dov’era». E la strada, a Livorno, gli ha fatto conoscere Pasolini. Che, regalandogli una macchina fotografica, gli cambiò la vita: « Avevo 16 anni — racconta — con alcuni amici eravamo riusciti ad entrare negli appartamenti di famiglie ricche, portando via soprattutto cibo. Lo stavamo divorando intorno a un falò, di notte, sulla spiaggia, quando si avvicinò questo tizio. Gli raccontai la mia storia. E diventammo amici. Pierpaolo, nome che poi ho dato a mio figlio, mi ha insegnato che le categorie umane o sessuali sono state inventate per separarci. Tutto ciò che si ama e si vive appartiene ad un medesimo livello. “ Ama e fai quello che vuoi, ma quello che vuoi fallo con amore” diceva mia nonna, partigiana. Ecco, io penso che il fotografo debba difendere la libertà, come chi fece la resistenza».
È stato operaio nelle acciaierie piombinesi. «Cinque anni. Poi fui licenziato perché scrissi un articolo accusando il padrone d’inquinamento. Mi hanno portato in tribunale, ma ho vinto io». Da anarchico felicemente fuori posto, Bertelli è inviso anche alla stessa “classe operaia” « per scritti tutt’altro che apologetici. Ma alle ideologie, preferisco i princìpi». Ha pubblicato un premiatissimo libro sui bambini di Chernobyl. Su di lui hanno girato documentari. Sue opere sono nelle collezioni degli Uffizi. Ha esposto alla Biennale di Venezia, « ma anche nelle birrerie — taglia corto Bertelli — Perché nelle foto io cerco la rivincita di chi soffre da secoli, dolore che tanti colleghi cercano di sfruttare. A me non interessa il dove, ma il perché». Non ha mai lasciato Piombino. « Sapevo che se fossi andato via avrei dovuto trasferirmi a Roma o a Milano, e vivere della fotografia che non amo. Per me conta solo una cosa. Portare la verità dove regna la menzogna».