di Sergio Fabbrini
In America, la polarizzazione politica si radicalizza ogni giorno di più. Pochi giorni fa, il candidato repubblicano alla presidenza, Donald Trump, ha definito la politica di alleanze internazionali del presidente democratico Joe Biden una «schifezza». Quando lui sarà di nuovo alla Casa Bianca, ha aggiunto, mi staccherò da tutte le alleanze, consentendo al presidente russo Vladimir Putin «di fare quel diavolo che vuole» con i Paesi dell’Alleanza Atlantica (tra cui l’Italia) che non rispettano l’impegno a investire il 2 per cento del loro Pil nella difesa. Poche ore dopo, il presidente Biden ha accusato Trump di essere «un-american», un’accusa che non si sentiva dalla fine del maccartismo negli anni Cinquanta del secolo scorso. Cosa c’è dietro tale polarizzazione politica?
Secondo molti studiosi, c’è una polarizzazione sociale ancora più radicale. Biden e Trump riflettono due Americhe profondamente diverse (sul piano economico, culturale, razziale).
Due Americhe con identità politiche diverse. Per Peter Baker, Biden rappresenta l’America che considera il governo una forza per il bene. Trump rappresenta, invece, l’America che considera il governo, e più generalmente il sistema pubblico, come intimamente corrotti, in quanto favoriscono «chi non se lo merita» e penalizzano «chi lavora duro ogni giorno». Le due Americhe hanno un senso opposto della realtà per via della distinta eco-sfera comunicativa in cui ognuna di esse è immersa. Un “fatto” non è lo stesso per loro. Se l’attacco del 6 gennaio 2021 al Congresso è considerato dall’America di Biden «un atto di insurrezione contro la costituzione», per l’America di Trump quell’attacco è «un atto di patriottismo costituzionale». La distinzione tra le due Americhe ha acquisito un carattere quasi-morale. Secondo il Pew Research Center, la percentuale di democratici che considerano “immorali” i repubblicani è cresciuta dal 35% (2016) al 63% (2023). Allo stesso tempo, la percentuale di repubblicani che considerano “immorali” i democratici è cresciuta dal 47% (2016) al 73% (2023). Non c’è una ricerca sociale che non confermi tale contrapposizione. Già Robert Putnam, in un volume del 2020 (Upswing, tradotto in italiano da Il Mulino nel 2023), aveva messo in luce «la ripugnanza reciproca» che caratterizza le due Americhe. Nel 1960, il 4% degli americani «si dichiarava dispiaciuto se il proprio figlio o la propria figlia avesse sposato il figlio o la figlia di elettori dell’altro partito». Nel 2020, quella percentuale era salita al 40% (4 su 10).
La difficoltà a convivere, tra le due Americhe, ha generato un processo di “partizione territoriale”, in base al quale ci si sposta da uno Stato ad un altro per ragioni di affinità culturale, non per cercare un lavoro come nel passato. Ci sono Stati in cui portare e usare le armi da fuoco è un atto identitario, altri in cui ciò è considerato aberrante. Ci sono Stati che proibiscono l’aborto a prescindere, altri che invece lo riconoscono pur con diverse regolamentazioni. Per Brendan O’Leary la partizione costituisce l’alternativa alla secessione. Così, pur rimanendo all’interno di una stessa entità politica, molti americani applicano il vecchio criterio vestfaliano del cuius regio, eius religio (ovvero, vado a vivere con chi la pensa come me). Tale partizione territoriale ha inevitabili effetti sul processo elettorale. Poiché ben 44 Stati sono chiaramente repubblicani o democratici, il vincitore delle elezioni è deciso nei sei Stati incerti (Arizona, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin).
Dal grande riallineamento elettorale degli anni Sessanta del secolo scorso, quando i repubblicani conquistarono il Sud (da cui erano stati esclusi dalla Guerra civile) e i democratici il Nord, i due partiti (e il loro elettorato) sono diventati internamente più omogenei. Trump ha fatto del partito repubblicano il rappresentante della classe operaia bianca, radicato nelle comunità rurali degli Stati centrali, escluso dalla trasformazione digitale, motivato da un risentimento antiglobalizzazione. Il partito democratico di Biden è invece il rappresentante dei ceti istruiti, economicamente benestanti, in grado di trarre profitto dalla trasformazione digitale, radicato nelle aree metropolitane ad alta intensità informativa. Come avvenuto in altri periodi della storia americana, i partiti cambiano pelle, passando da destra a sinistra e viceversa, quando si verificano congiunture critiche, come l’attuale, che mettono in discussione i vecchi posizionamenti. Così, il conservatore Trump agisce come un eversore, un rivoluzionario che vuole annientare lo “Stato profondo” (costituito dagli apparati della difesa, della sicurezza, della diplomazia), un vendicatore a nome dei dimenticati. A sua volta, il progressista Biden agisce come un conservatore, un difensore dello status quo, un propugnatore del compromesso politico e della moderazione.
Insomma, l’America è attraversata da divisioni sociali e politiche così profonde da ricordare i decenni precedenti la Guerra civile (1861-65). Tuttavia, come ha rilevato lo storico Sean Wilentz (della Princeton University), ciò non significa che l’America sia destinata a seguire la stessa strada di allora. Significa, però, che un Paese diviso e con istituzioni bloccate non è nelle condizioni più idonee per affrontare sfide interne e minacce esterne. A Bruxelles lo sanno. E cosa fanno?