Un’idea un concetto un’idea. Finché resta un’idea è soltanto un’astrazione
3 Gennaio 2024Fondazione Cini
3 Gennaio 2024Il libro Lo scrittore di Colle Val d’Elsa e la sua traduzione di «Gioventù senza Dio» di von Horváthche fa sua la tesi nietzschiana davanti al nazismo e narra di un uomo pavido e inneggiante a capi plebei
di Roberto Barzanti
Chissà come gli saltò in mente di pubblicare a puntate sul quotidiano del CTLN (Comitato Toscano di Liberazione Nazionale) un romanzo di Ödön von Horváth (1901-1938)! Solo nel 1991 si ebbe notizia dell’esistenza del manoscritto inedito di Romano Bilenchi (1909-1989), che forse aveva sfogliato l’opera apparsa in traduzione francese presso Plon, a Parigi, nel 1939. L’offerta a Bompiani non ebbe esito. Ed eccola ora stampata in volume: Gioventù senza Dio , nella versione di Romano Bilenchi , pp. 155, € 16, Cadmo, Fiesole (Firenze), 2023. Da tempo ne circolavano varie versioni — anche di questa, sia pure in tiratura limitata e riservata agli Amici dell’Associazione dedicata allo scrittore di Colle di Val d’Elsa — ma leggerla in un volume destinato ai tanti interessati è emozionante.
Le ragioni che spinsero Romano a un tale azzardo sono intuibili. Lui volle sempre far giornali leggibili e innovatori, e desiderava che anche l’esile organo ufficiale del CTLN fosse aperto a contributi letterari, riflessioni saggistiche, firme illustri. Così tra aprile e maggio 1946 nell’edizione pomeridiana della Nazione del Popolo vide la luce a puntate il breve testo. Dopo lo scioglimento del CTLN (3 luglio 1946) il giornale aveva assunto per la sortita pomeridiana un altro titolo, Il Pomeriggio , e successivamente ebbe quello di Quotidiano d’informazione . Bilenchi era il caporedattore responsabile del foglio (dal 2 0ttobre 1945 al 31 dicembre 1946) e conservò tale ruolo oltre il cambio di denominazione. Ne sarebbe scaturito Il Mattino dell’Italia Centrale . Il comunista Bilenchi prese altre strade. L’impegno di tradurre il romanzo dal francese se l’era assunto con entusiasmo: la sua, però, fu una traduzione da traduzione e non invita pertanto a un’analisi stilistica, se non da parte di specialisti. Ulteriori motivi dell’iniziativa furono gli ingredienti che l’autore aveva scelto per la trama.
Ödön von Horváth nacque a Fiume, meglio a Sušak, sua frazione orientale, oggi Rijeka in Croazia, nel 1901. Figlio di un diplomatico ungherese, durante l’adolescenza seguì la famiglia per un visibilio di città. In un’umorale autobiografia scrisse: «Sono cresciuto a Belgrado, Budapest, Bratislava, Vienna e Monaco, e ho un passaporto ungherese… ma, la patria? Non so cosa sia. Sono una tipica mescolanza della vecchia Austria-Ungheria». Aveva appreso quattro lingue. A 14 anni aveva scritto la sua prima frase in tedesco. Residenze determinanti furono nella maturità Berlino, Salisburgo e Murnau am Staffelsee in Baviera, dove è ambientato in massima parte Gioventù senza Dio . All’esordio, nel 1920, si esibì in opere teatrali. Famosa fu Italienische Nacht (1931), (Notte all’italiana) , cioè trascorsa tra sketch, balli e musiche di repertorio italiano. Velenose battute attestavano già la sua dura opposizione alla dittatura imperante: «La faremo noi repubblicani stasera, la nostra notte all’italiana, alla faccia di Mussolini e compagnia!» E un Martin ancor più chiaro scagliava frecciate contro «i sedentari della socialdemocrazia» (Castellani): «Quei borghesucci devono assaggiarli sulla loro pelle i frutti della loro tattica da traditori. Noi giovani li abbandoniamo al loro destino e decidiamo noi stessi del nostro!». Nel 1930 apparve il suo primo romanzo: L’eterno borghese . Nel 1936 tutti i suoi libri furono proibiti. Gioventù senza Dio (Jugend ohne Gott ), il terzo dei suoi quattro romanzi dovette, lui ebreo, pubblicarlo nel 1937 ad Amsterdam, dove era fuggito per evitare persecuzioni. Torniamo a Bilenchi, che se la doveva vedere, nei ritagli del suo lavoro di redattore, con un racconto per niente agevole. Nino Muzzi, che ha curato la versione più recente (2021) per Castelvecchi, mi fa notare che già il francese aveva alleggerito il tedesco di partenza, attutendo le asperità tipiche di von Horvát: ellittico, teatrale, zeppo di perfidi sottintesi. Il racconto si snoda nel monologo di un professore che per aver rimproverato un discepolo di avere stilato seccamente in un tema «Tutti i negri sono mascalzoni, vili e pigri» viene sbeffeggiato. Il rimbrotto gli tira addosso le ire degli allievi, già imbevuti delle dottrine razziste e belliciste del nazismo in ascesa. Il professore non è un cuor di leone e medita come reagire. Si arrende al clima che impazza e si rassegna a una vile prudenza. Romano dovette vedere nel personaggio l’incarnazione di un atteggiamento ben conosciuto. Le frasi sono brechtiane schegge che ubbidiscono a nervosi sobbalzi mentali. Intorno il paesaggio è ingrigito, non apre possibilità di riscatto. Paolo Maccari nelle prefazione afferma che il libro ha un tenore filosofico. Il professore, infatti, confessa a se stesso: «Io ho perduto la fede in Dio durante la guerra. Era troppo per un ragazzone, appena staccatosi dalle gonnelle della mamma, comprendere che Dio poteva acconsentire a vedere una guerra mondiale».
Percepibile è la patina toscana che conferisce al protagonista una vicinanza alla situazione che aveva attraversato l’Italia. L’eco del nietzschiano «Dio è morto» era restato nell’aria. Nei dialoghi con un prete che non vela di consolatoria retorica la sue risposte si approfondisce una linea che sfocia in una fede non alimentata da amore: «Il tempo in cui non credevo in Dio è passato. Oggi ci credo. Ma non lo amo».
L’apocalisse incombe. La società è dominata da padroni che annienteranno ogni volontà individuale: «Andiamo verso l’epoca di una insensibilità popolare polare. Sarà l’era dei pesci. L’anima dell’uomo diventerà impassibile come la faccia di un pesce». Il viaggio termina con un’evasiva ribellione. Il professore parte per l’Africa a risarcimento del razzismo contro cui non ha saputo battersi.
Vien da pensare a un Berto Ricci o ai giovani dell’Universale (1931), abbacinati dall’illusione che le imprese coloniali apportassero una generosa civilizzazione. Invece «nel passo ottusamente ritmato — chiosò il rimpianto Mario Specchio — delle parate di provincia» inneggianti al «capo plebeo» emergeva una strategia crudele e distruttiva: «Reggimenti di uomini senza carattere, al comando di idioti. Tutti con lo stesso passo».
https://corrierefiorentino.corriere.it/