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12 Dicembre 2022Griffi, lo scrittore del lunedì «Vi racconto intrecci folli»
12 Dicembre 2022Strade, baracche, automobili, insegne Sono i soggetti delle opere del Nobel che qui racconta la sua passione segreta
di Bob Dylan
Nel 1974 tenni il primo di una lunga serie di concerti con The Band dopo otto anni di interruzione. Eravamo in uno stadio di hockey a Chicago, ci saranno state 18.000 persone. Io e The Band non suonavamo insieme in pubblico dal 1966, anno in cui i nostri spettacoli avevano dato luogo a disordini e contestazioni: in generale, tanta rabbia. Ora eravamo lì per ricominciare, ma era impossibile prevedere cosa sarebbe successo. Alla fine del concerto, dopo aver suonato più di 25-30 brani, eravamo sul palco e ci guardavamo intorno. Il pubblico era in penombra. All’improvviso, qualcuno accese un fiammifero. Subito dopo se ne accese un altro. In breve tempo, alcune zone dello stadio erano avvolte dalle fiammelle. In pochi secondi sembrava che lo stadio intero fosse in fiamme e che tutti i presenti avessero acceso fiammiferi per bruciare ogni cosa. Io e i ragazzi cercammo l’uscita più vicina, visto che nessuno di noi voleva andare a fuoco. Sembrava la solita storia che si ripeteva: se nelle precedenti tournée avevamo trovato estrema la reazione del pubblico, questa era decisamente apocalittica.
Ciascuno di noi pensava: ecco stavolta ci siamo riusciti davvero, la gente darà fuoco all’arena. Ovviamente sbagliavamo, avevamo totalmente frainteso la reazione della folla. Quello che credevamo un gesto di disapprovazione era in realtà il segno di un grande apprezzamento. Le apparenze possono ingannare. La prima idea per questa serie di dipinti è stata quella di creare immagini che non si prestassero a essere male interpretate o fraintese, da me o da altri. Le opere sono accomunate dallo stesso tema: il paesaggio americano come lo si vede attraversando il paese, osservandolo per quello che è. Restando fuori dalle grandi arterie e percorrendo solo strade secondarie, in totale libertà. Credo chela chiave del futuro risieda in ciò che resta del passato e che sia necessario padroneggiare i linguaggi del proprio tempo per poter acquisire un’identità nel presente. Il passato inizia il giorno stesso in cui si nasce e non tenerne conto significa ingannare sé stessi su chi si è veramente.
La mia idea era di fare cose semplici, occuparmi solo di ciò che è visibile all’esterno. Questi dipinti hanno il realismo dell’istante, arcaico, statico perlopiù, ma comunque percorso da un fremito. Sono in contraddizione con il mondo moderno. Ad ogni modo, questo è il mio lavoro. La strada della Chinatown di San Francisco si trova a soli due isolati di distanza dai palazzoni aziendali privi di finestre. Ma queste strutture glaciali e gigantesche non hanno alcun significato per me, nel mondo che vedo o che scelgo di vedere, di cui faccio parte o in cui entro. A mezzo isolato di distanza dal chiosco di hotdog di Coney Island, il cielo è occupato dai grattacieli. E io scelgo di non vedere neanche quelli. In fondo alla strada, dall’altra parte della highway rispetto a Cabin in the Woods, c’è un campo da golf ben curato, che però non mi dice niente al confronto di quella baracca apparentemente insignificante. L’Alabama Side Show è circondato da boschi in tutte le direzioni. Si dà il caso che il “side show” si trovi in una radura a cui si accede da una strada sterrata. Io ho scelto di dipingere questa attrazione secondaria anziché i boschi infiniti. E lo stesso vale per innumerevoli altre opere.
Tutta l’iconografia è utilizzata in modo semi-consapevole. Scelgo le immagini per ciò che significano per me; in queste immagini ripetute – vie, baracche, moli, automobili, strade, paludi, binari ferroviari, ponti, motel, fermate di camion, linee elettriche, cortili, insegne di teatri, chiese, segnali, simboli eccetera – si riconoscono determinati modelli che stabiliscono un certo tipo di valore compositivo. Direi che il fine è semplice, non sperimentale né esplorativo.
Alcuni di questi dipinti sono caratterizzati da una grande complessità di particolari. Altri sono meno impegnativi, in certi casi la mano non era capace di riprodurre ciò che l’occhio percepiva. Così sono passato al metodo della camera oscura, un’antesignana della macchina fotografica che proiettava un’immagine capovolta su cui il pittore poteva lavorare. Si trattava di un vero e proprio apparecchio fotografico, solo che l’immagine non si poteva stampare ma solo vedere ed elaborare. Caravaggio ha usato questo stratagemma per quasi tutti i suoi dipinti, così come hanno fatto Van Eyck e Vermeer. Al giorno d’oggi naturalmente non ce n’è più bisogno: si può utilizzare una vera macchina fotografica. Io ho montato un obiettivo di conversione grandangolare da 58 mm 0,43x su una Nikon D3300 Af-p, che ho poi usato per molti dipinti tra cui Downtown Bank, Katz’s, Nathans, Russ & Daughters, Roy’s, Blue Line, riuscendo a ottenere l’effetto desiderato. Quando non funzionava, usavo uno schermo televisivo convesso in plexiglas RCA 24 x 20, del genere che trovi nei vecchi negozi di cianfrusaglie, e guardavo il mondo attraverso quello. In Curry Road in Arizona ho usato il fotogramma di un vecchio film e lo stesso ho fatto un paio di altre volte. In altri casi ho disegnato direttamente: Topanga Ranch, Ice Cream Factory, Truck Stops, Flat Top Mt. Diner eDel Rio Cantina. Il metodo dell’obiettivo modificato aveva lo scopo di ottenere un effetto di maggiore pienezza. In molti altri casi, tutto ciò che mi serviva era una riga, un compasso e una squadra a T, sempre procedendo caso per caso, senza abbandonare la tradizione né aderire a particolari convenzioni o dottrine estetiche.
Gli acquerelli e gli acrilici della serie hanno volutamente una scarsa carica emotiva – quando nonne sono del tutto privi – eppure non sono necessariamente rigidi. Il tentativo era quello di rappresentare la realtà e i paesaggi così come sono, senza idealizzarli. Cerco di comporre opere che creino stabilità, lavorando su soggetti generici, universali e facilmente identificabili. In tutte le opere c’è il tentativo di rappresentare scene di vita (compresa la vita inanimata) del tutto fini a sé stesse (Ice Cream Shack, Arcade, Threatening Skies). Leonardo dipingeva scene dai contorni indistinti, in cui non si vedono linee ma nuvole che sfumano l’una nell’altra, con diverse combinazioni di colori. Una visione opposta era quella di Mondrian e Van Gogh, con linee rigorose a definire i volumi nello spazio. Nel mezzo dovrebbero esserci Kandinskij e Rouault. E questi miei dipinti probabilmente rientrano nell’ultima categoria.
Un altro intento era quello di spersonalizzare le immagini, spogliandole dell’illusione. L’intera serie è ambientata in luoghi tutt’altro che esotici, all’interno di spazi razionalmente definiti. I punti focali sono importanti e talvolta collocati in modo insolito; per questo sfondo e primo piano non sono sempre facilmente definibili. In Amusement Park Alleyway il punto focale è la ruota panoramica sullo sfondo; in Chevy, invece, il camion arancione è sì al centro del primo piano ma non è il fulcro della composizione; in Morning in Pittsburgh, il fuoco è il ponte sullo sfondo e non il grande magazzino in primo piano, proprio come in Flat Top Diner, dove in effetti il punto focale potrebbe coincidere con gli alberi verdi.
Ho cercato di creare immagini bidimensionali utilizzando un sistema matematico. A volte sfondo e primo piano convergono. L’elemento principale è sempre lo scenario naturale.
Non si tratta di composizioni affollate, ma di dipinti che si servono di strutture essenziali per esprimere sentimenti e idee: proporzioni e logica anziché emozioni. La natura stessa della bellezza, le linee, le forme e le consistenze enfatizzano l’elemento riconoscibile e creano un’armonia che ha come protagonista lo scenario naturale.
Mi sono limitato a soggetti tradizionali, non giudicando nulla come superficiale o troppo chiassoso. Un semplice chiosco di hotdog può avere le caratteristiche di un’architettura classica, e io lo considero tale (
Donut Shop, High Wire).
Curve sinuose, archi rampanti, guglie, arcate e onde: c’è tutto questo nei dipinti, che rispecchiano ogni periodo e al contempo cercano di stare alla larga da effetti di luce drammatici o teatrali, mettendo piuttosto in primo piano il naturalismo.
In certi quadri la luminosità della luce riflessa è esaltata da pennellate evidenti. A volte la luce del sole colpisce alcuni punti generando un forte contrasto con le zone in ombra (
Sunset on the Prairie, Threatening Skies).
Ho cercato di evitare prospettive distorte o luci artificiali, ma non è stato sempre possibile. Il pittore esperto è un maestro della teoria dei colori, in grado di trasformare il bianco in nero impiegando un complesso sistema di valori cromatici e tonalità, come faceva Mark Rothko ad esempio. La serie
The Beaten Path
riflette piuttosto il tentativo di esplorare il colore, talvolta utilizzando pigmenti meno pronunciati e contorni meno precisi, altre volte perseguendo la monocromia (Oil Rigger’s Shack, Twilight After Dusk).
Le linee fluide o curve sono un altro mezzo utile a suggerire l’estrema distanza in un dipinto di paesaggio. L’architettura è sempre stata una fonte vitale di idee e di ispirazione, ma The Beaten Pathcerca di rifarsi alla percezione tradizionale – le cose che si percepiscono nel mondo visibile – convertendo la tridimensionalità in un formato bidimensionale attraverso l’uso di determinati scenari, contrasti, isolamento e convergenza di elementi.
Se questa raccolta di dipinti avesse una colonna sonora, sarebbe composta dai brani di Peetie Wheatstraw in alcuni punti, Charlie Parker in altri, Clifford Brown o Blind Lemon, forse Guitar-Slim: tutti artisti che ci rendono molto più grandi di quello che siamo quando ascoltiamo la loro musica. Dovrebbe essere così, assolutamente.
C’è stato un tentativo consapevole di respingere il fenomeno del consumismo e la cultura popolare: i mass media, l’arte commerciale, le celebrità, il packaging, i cartelloni pubblicitari, i fumetti, le réclame delle riviste. Le opere di The Beaten Path rappresentano soggetti diversi rispetto all’immaginario quotidiano della cultura del consumo. Nulla in questi dipinti suggerisce un’ispirazione freudiana o riferimenti a immagini oniriche, né vi sono richiami a mondi fantastici, contenuti mistici, credenze religiose, soggetti ambigui. Davanti a queste composizioni l’osservatore non ha bisogno di chiedersi se si tratta di un oggetto reale o se è frutto di un’allucinazione: se visitasse il luogo in cui quell’immagine è realmente esistita, vedrebbe la stessa cosa. È questo che ci unisce tutti.
(Traduzione Lost in translation di Valentina Moriconi, originariamente pubblicato in “Bob Dylan. Retrospectrum”, catalogo della mostra a cura di Shai Baitel, Roma, MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Skira, Milano 2022)