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27 Febbraio 2024NEWS
27 Febbraio 2024Personaggi Quaranta anni fa moriva il gran regista del Gabinetto scientifico e letterariodella sua «Antologia». I libri, l’impegno politico da sindaco di Firenze, le amicizie in città
di Francesco Guerrieri
A quarant’anni dalla scomparsa di Alessandro Bonsanti (Febbraio 1984) manca un’adeguata monografia che consenta la giusta confidenza con la sua complessa personalità di scrittore, critico, e prezioso tessitore culturale. Il suo Vieusseux ne ha celebrato convegni e giornate di studio, né ha mai mancato di ricordarlo e di sottolinearne il ruolo determinante nella società letteraria del Novecento. Con lui se ne andava un anello forte della couche letteraria fiorentina, lo «stilista dal gusto antico», l’appassionato «promotore culturale», l’ultimo «cancelliere umanista» di Palazzo Vecchio.
Forse uno dei più sensibili intellettuali di quella generazione che aveva sicuramente dato assai, assai più di quanto avesse ricevuto: per generosità, civiltà, autentica vocazione culturale. Se prescindiamo dalla poco più che plaquette di Susetta Salucci (Il Castoro, La Nuova Italia, 1978), la memoria della narrativa bonsantiana è affidata solo a saggi; segnatamente ad Anna Dolfi, nel contesto di Tre interviste sul tempo (Bassani, Bilenchi, Bonsanti): è in quella sede che si evidenziano il privilegio joyciano e l’incidenza proustiana sugli scrittori di Solaria e di Letteratura di cui Bonsanti fu il telaio portante. Nel 1937 sarebbe sbocciata la vis creativa per le riviste, sarebbe nata Letteratura che, con interruzioni e riprese, vivrà fino al 1968; l’ultima prestigiosa serie, che dirigerà da Palazzo Strozzi, con redattore Ferruccio Ulivi, vedrà la luce nel gennaio del 1953, stampato da De Luca a Roma. Nel novembre del ’52 era morto Benedetto Croce, portandosi dietro pareri e dispareri fra destra e sinistra; così Bonsanti, nell’editoriale del primo numero — intitolato Cordoglio per Croce – scriverà «Non saremo noi a credere che disperso il più immediato rimpianto sia possibile e lecito relegare i volumi del Croce nel ripiano più alto della biblioteca, dove la mano non arriva (…). Il suo lascito più prezioso e più esposto: l’indipendenza del pensiero di fronte alle sollecitazioni della pratica, la dignità, l’interna moralità della cultura, che non deve mai tramutarsi in strumento di parte».
Più tardi, nel gennaio del 1966, ecco nascere Antologia Vieusseux – Giornale di scienze, lettere e arti , con un suo Avvertimento che funge da editoriale: «Fin dall’immediato dopoguerra fu evidente che il Gabinetto G.P. Vieusseux doveva modificare l’indirizzo predominante nell’ultimo cinquantennio inteso quasi esclusivamente alla gestione della Biblioteca, per tornare ad essere un Istituto dagli interessi culturali, ampi, dinamici, attuali; come gli fa obbligo lo Statuto che ne regola la vita. E fu anche chiaro che fra le iniziative da prendersi, la pubblicazione di un organo periodico, dove alcune ragioni di tipo ricorrente fra quelle che avevano spinto Gian Pietro Vieusseux a farsi editore dell’Antologia , sarebbero apparse di nuovo valide.» E così è stato, ininterrottamente fino ad oggi, con i Ragguagli Critici di Economia, Scienze, Storia, Lettere, Arti; e più tardi. Nella sua rivista Bonsanti avrebbe ospitato i protagonisti del Novecento, da Gadda a Montale, graniticamente lontana da ogni spinta partitica e circostanziale, fedele solo alla scrittura. E se Bigongiari disse dell’opera di Bonsanti come di un «particolare rapporto fra storia e memoria, tese quasi ad annullare la distanza spazio-tempo», fu Gianfranco Contini, parlando dei Capricci dell’Adriana a fare i nomi di Svevo e di Proust, soffermandosi sulla tensione del suo stile narrativo che definiva di una «purezza geometrica». La Salucci, citata, insisteva su un elemento caratterizzante la narrativa di Bonsanti, «la lontananza spazio-temporale ribaltata nel suo rovescio, cioè un presente, in un continuo oggi dove si annulla persino la distanza del ricordo». Una suggestione che in effetti accompagna le sue maggiori opere narrative, da La buca di San Colombano a La nuova stazione di Firenze . In effetti, chi ha conosciuto e ben frequentato Bonsanti sa bene come la proustiana ricerca del tempo perduto appartenesse alla sua cifra di vita. Basta ricordare i dettagli della sua scrivania di lavoro all’Archivio di via Maggio, dove gli oggetti di cancelleria testimoniavano di una condizione senza tempo, dove ancora le lattine dismesse di caramelle erano a contenere penne, lapis, doppiodecimetro, lente d’ingrandimento.
Ma qui non siamo a ripercorrere la sua densa e laboriosa biografia, quanto a tratteggiarne alcune pieghe — forse le più umane — della sua ultima stagione, spesa a metter gambe alla grandiosa idea del suo Archivio. Nella mia frequentazione mi accorsi di una sua peculiarità, oggi impensabile: la grande capacità di piegare all’utile per il Vieusseux ogni circostanza di dismissione di arredi o di attrezzature altrui: dal Comune alla Cassa di Risparmio, al Convento di S. Maria degli Angioli. Da quest’ultimo, quando ne fu smontata la Biblioteca (uno splendido pezzo di architettura degli interni di Antonio Maria Ferri, un architetto sei-settecentesco dei Corsini), se ne farà l’attuale adattamento nella sala terrena di Palazzo Strozzi di cui ancor oggi si gode, chiamandola appunto, «Sala Ferri». Dunque, mai meravigliarsi della palese eterogeneità dell’arredo del Vieusseux a Strozzi e in via Maggio: è il risultato del paziente e non oneroso recupero di Bonsanti delle dismissioni altrui.
C’erano poi i «percorsi dell’Oltrarno», di cui ebbi personalmente a godere.
Senza venire mai meno alla discrezione fatta stile, quei consueti percorsi da Borgo Tegolaio al bar del Ricchi in Santo Spirito, furono itinerari dell’anima e di progressiva confidenza letteraria; così, ogni viaggio, in quel magico Oltrarno, era occasione per ripercorrere la sua vita, le sue amicizie, i suoi successi e le sue sconfitte. E infine anche una piccola grande confidenza: «Una mattina — ebbe a dire — preceduto da una delicata telefonata, venne a Palazzo Corsini il giovane Alfredo Franchini; autorizzato e su mandato di Giovanni Spadolini, gli fu proposto qualcosa che, per superare la crisi di Palazzo Vecchio, non poteva rifiutare: diventare sindaco, cioè «cancelliere umanista» della città, come cinque secoli prima, lo era stato Coluccio Salutati. Così fu «cancelliere». Ma «cancelliere», insolitamente, capace di stima e fiducia nei e dai suoi collaboratori. Ciò gli permise di non recidere alcunché col suo amato «Archivio Contemporaneo»: a piedi , da casa — da Costa S. Giorgio — scendeva in via Maggio, traversando via dei Bardi e via Guicciardini; qui lavorava fino alle 10,30 , poi il tempo per un caffè in S. Spirito, e dunque, traversando Ponte S. Trinita, alle cure della città nella sala di Clemente VII.
Così dovemmo anticipare il nostro rendez-vous: gli suonavo da via Maggio (tre squilli era la nostra convenzione), salivo a riscontrarlo, scendevamo su Borgo Tegolaio dal portoncino posteriore del palazzo, poi, dopo il caffè, il saluto, all’incrocio di via de’ Michelozzi.