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Mentre il sole tramontava sulla festività patronale di Sant’Ambrogio, poco dopo che i muri del Teatro alla Scala erano stati puliti dalle vernici con cui li avevano imbrattati per protesta alcuni ambientalisti, come ogni anno l’inaugurazione della stagione lirica più attesa d’Italia si offriva ieri sera come un rito collettivo in cui si sono contrapposte due folle, quella dentro il teatro a godere dello spettacolo o a sfoggiare scampoli di mondanità e quella fuori dal teatro a protestare contro uno sfarzo percepito come ingiusto e antistorico. Fuori, alla protesta organizzata dalle diverse istanze proponenti il referendum «No carovita» depositato ieri stesso al Comune di Milano, culminante in una cena a lume di candela nella piazza antistante il teatro come denuncia dell’«assurdità del lusso messo in mostra alla prima scaligera, un vero e proprio sfregio alle disuguaglianze e alla povertà», si sono unite quella della Cub, che ha lanciato una petizione online per dire a Giorgia Meloni che non è benvenuta a Milano, città «medaglia d’oro della Resistenza», quella dei Si Cobas, di diversi centri sociali e di alcuni rappresentanti della comunità ucraina per protestare contro la guerra. Dentro i rappresentanti delle maestranze della Scala, che hanno già scioperato il 29 novembre facendo saltare la prima prova d’insieme dell’opera per denunciare la «sforbiciata» ai contributi di Comune e Regione al teatro, avevano annunciato che avrebbero letto un comunicato: «La cultura è un bene comune e primario come l’acqua. I teatri, le biblioteche, i cinema sono come sorgenti inesauribili. La cultura è energia pura, energia per la mente e per l’anima di ogni essere umano. La musica, l’arte tutta è un linguaggio universale foriero di pace. Un Paese che taglia i finanziamenti alla cultura taglia il futuro dei propri cittadini». Ma nulla è accaduto prima che si spegnessero le luci per onorare lo spettacolo programmato, in presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come sempre applauditissimo, della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, della già citata Presidente del Consiglio e altre autorità locali e nazionali.
FINITA l’orgia di grida e sussurri, dopo gli immancabili inni nazionale ed europeo, la calma surreale della serata ha avvolto le note del tenebroso Boris Godunov del russo Modest Musorgskij, sulla cui scelta nelle scorse settimane il console ucraino a Milano ha sollevato una polemica, che il governatore della regione Attilio Fontana ha liquidato seccamente: «Credo che sia tutto superato e credo che la cultura e l’arte non debbano mai confondersi con la politica». Titolo ricorrente per 26 volte nella programmazione scaligera fin dalla mitica prima italiana del 1909 voluta da Arturo Toscanini, Boris apre la Stagione per la seconda volta dopo l’edizione memorabile diretta da Claudio Abbado nel 1979. La versione scelta è quella primigenia del 1869, il cosiddetto Ur-Boris, che venne rifiutata dai Teatri imperiali di San Pietroburgo per la sua novità radicale (divisa in 7 scene, nessun numero chiuso, nessun intreccio sentimentale, nessuna parte femminile di rilievo né un tenore eroico o amoroso) e costrinse Musorgskij ad approntare una versione edulcorata nel 1874, a sua volta revisionata da Nikolaj Rimski-Korsakov nel 1896. Insomma Chailly, seguendo l’esempio di Valery Gergiev nel 2002 al Teatro degli Arcimboldi, restituisce al pubblico milanese l’intenzione originaria del compositore che sgomentò i contemporanei per i tratti innovativi e realistici sia dal punto di vista drammaturgico sia dal punto di vista musicale: una rappresentazione del tema della colpa e delle sue conseguenze, sullo sfondo del «periodo dei torbidi» (1598-1614: gli anni di anarchia compresi tra la morte di Ivan il Terribile e l’avvento dei Romanov), che coniuga la rapinosa asciuttezza del Macbeth (1606) contemporaneo di Boris, con l’introspezione labirintica di Delitto e castigo (1866) di Dostoevskij.
CHAILLY, che ha una certa dimestichezza col repertorio russo e che era assistente di Abbado all’epoca del suo Boris, ricorda con le parole di Tullio Serafin «che la grandezza del Boris è forse debitrice del cupo realismo con cui Verdi dipinge la vertigine del potere in Macbeth. Presentare le due opere in due inaugurazioni consecutive assume anche questo significato»: un cortocircuito tematico, ma anche un confronto estetico. La sua direzione di questa partitura aspra, basata su un’adesione assoluta alla prosodia della lingua russa senza sconti a facili melodismi risulta efficace forse proprio perché l’austerità e la resistenza agli effettismi sono la cifra dello stesso direttore, che qui trova un terreno congeniale per esprimersi.
L’allestimento con la regia di Kasper Holten, le scene di Es Devlin, i costumi di Ida Marie Ellekilde, le luci di Jonas Bøgh e i video di Luke Halls, propone una lettura dell’opera incentrata sui conflitti sempre attuali tra coscienza e potere, tra verità e censura, enfatizzando gli elementi shakespeariani del testo (è ricorrente lo spettro dello Zarevic trucidato da Boris per conquistare il potere, segno della colpa e della follia del protagonista) e il tema della testimonianza, unico rimedio contro i delitti della storia (le cronache scritte dal monaco Pimen sono sempre in scena come fondali a ricordarci i fatti).
STREPITOSO il cast: Ildar Abdrazakov presta a Boris la sua formidabile tecnica vocale e la sua intensa presenza scenica, regalandogli maestosità e struggente tormento; ieratico Ain Anger nel ruolo di Pimen. Bravi anche Norbert Ernst (Šujskij), Alexey Markov (Andrej), Dmitry Golovnin (Grigorij), Vassily Solodkyy (Boiardo), Lilly Jørstad (Fedor), Anna Denisova (Ksenija), Agnieszka Rehlis (Nutrice) e Roman Astakhov (Mitjucha). Per tutti applausi scroscianti.