di Arianna Finos
Muovendosi in un cinema che si adatta alla visione sul tablet, è salutare dare una facciata contro ilmonumentale blocco di cemento che èThe Brutalist. Il film di Brady Corbet, alla scorsa Mostra di Venezia (Leone d’argento alla regia) e in sala il 23 gennaio (Universal), è una costruzione in 70 mm lunga tre ore e mezza, con un intervallo di quindici minuti. In attesa degli Oscar, ha appena ottenuto sette nomination ai Golden Globe. Racconta di László Tóth, un immaginario architetto ebreo ungherese della Bauhaus che emigra nel secondo dopoguerra in un’America diversa da quella che si aspettava. È costruito sulle biografie di alcuni esponenti del brutalismo, la corrente di metà Novecento che puntava su linee semplici e crude, cemento a vista. Tóth è un sopravvissuto ribelle all’Olocausto e ha il volto di Adrien Brody, che supera in bravura il se stesso delPianista. Da Ellis Island alla Pennsylvania, ospite di un cugino mobiliere, mentre aspetta l’arrivo della moglie (Emily Blunt), Toth trasforma una vecchia sala di letture in una biblioteca all’avanguardia e il proprietario (Guy Pearce) gli commissiona un edificio di cemento e marmo italiano capace di “dare forma al futuro”. È l’avvio di un rapporto ambiguo tra mecenate e artista, immigrato e privilegiato wasp.
Dopo la parabola fascista diL’infanzia di un capo e quella pop diVox Lux, inThe Brutalist il 36enne Corbet decostruisce il sogno americano e le sue false promesse.
Cosa significa questo film per lei?
«Cercavo una storia sull’architettura e gli anni Cinquanta americani. I miei film affrontano traumi generazionali e c’è un legame intrinseco tra la psicologia e l’architettura del dopoguerra».
Ha impiegato sette anni per realizzarlo.
«Prima per il Covid — il set era in Polonia, dove hanno chiuso le frontiere — poi per l’invasione russa dell’Ucraina. Ma ogni film richiede tempo. Perciò non potrei lavorare per anni su una storia umana piccola, mi servono temi grandi e una tela larga».
Il film assimila la condizione dell’artista e dell’immigrato, in una società americana ostile a entrambi.
«L’allegoria visiva è chiara nel film: le comunità hanno la stessa reazione, lo stesso istinto, verso i nuovi vicini che hanno un patrimonio culturale diverso e inaccettabile, come verso progetti di costruzione sconosciuti, edifici che vogliono subito abbattere.
L’edificio diventa il simbolo poetico e potente di un artista che lotta per il diritto al proprio lavoro.
László l’immigrato combatte per il suo diritto di sopravvivere».
Centrale il rapporto tra Tóth e la moglie paraplegica. Lei scrive i suoi film con sua moglie, Mona Fastvold.
«Ogni film che abbiamo fatto è personale, questo lo è in modo più contemporaneo. Mia moglie due anni fa ha avuto un’emergenza medica e ha rischiato di morire: il nostro mondo è stato sconvolto.
Abbiamo cercato di impregnare ilpiù possibile questo film della nostra esperienza di vita. Questa è una storia di fantasia, i personaggi hanno uno sfondo, credenze religiose e convinzioni politiche diverse dalle nostre. Ma il cinema è uno spazio salvo. Dopo le elezioni, ho trovato inquietante che il 52 per cento degli americani sia rappresentato di rado nei film, fatti soprattutto da artisti liberali. Noi raccontiamo sopravvissuti che non sono altruisti: è offensivo il modo in cui nel cinema del dopoguerra e nei drammi dell’Olocausto i sopravvissuti siano disegnati come angeli. Come se non potessimo entrare in empatia con qualcuno che è imperfetto, come lo siamo noi. Mi chiedono se penso a me stesso come a László. No. Ma io e mia moglie siamo entrambi registi, ci muoviamo in una burocrazia che ci ripete: non puoi fare questo. Nel film ci sono le nostre frustrazioni».
In “The Brutalist” sono ugualmente necessarie la poesia e la violenza. Con una scena disturbante di aggressione, nelle cave di Carrara.
«Tutti i miei film raccontano di una violenza ambientale o di un potenziale di violenza, emotiva o fisica. Anche perché è ciò con cui lottiamo tutti su base giornaliera, soprattutto la violenza emotiva.
Questo film porta le cose a estremi operistici, un racconto da mitologia greca, l’idea che nelle cave di marmo hai un personaggio che cerca di possedere un uomo che non può e non dovrebbe essere posseduto. E intorno a loro c’è la materia che non dovrebbe essere posseduta. Nella scena delle cave senti che Madre Natura è incazzata, ci sono cadute di rocce pericolose, costanti. È come se ci fosse qualcosa di perverso nel rivestire i banconi di bagno e cucina con quel marmo: mi interessava esplorare l’idea che insieme a una grande ricchezza arrivi il diritto a materiali che non dovrebbero essere posseduti. È l’unico aspetto “ecologico” del film. Il cemento è un materiale non sostenibile e io amo l’architettura sostenibile di Peter Zumthor. Ma il brutalismo è stato un passo importante nella direzione del modernismo, perciò nel contesto storico del film viene celebrato».
Adrien Brody è stato subito Tóth?
«Sì, per il suo patrimonio culturale e la sua età. Mi ricorda Gregory Peck, lo senti davvero un uomo di un’altra epoca. È legato a questa storia, sua madre fuggì dall’Ungheria negli anni Cinquanta, durante la rivoluzione».
Ci sono pochi filmsull’architettura.
«A parte Il ventre dell’architetto di Peter Greenaway eLa fonte meravigliosa di King Vidor.
L’architettura è inanimata: è difficile renderla emozionante davanti alla telecamera. Sapevamo che non potevamo presentarla, ma rappresentarla: il peso del film, la colonna sonora, sono una sorta di monumento brutalista».
Lei è stato anche attore. Un attore ragazzino, da “Funny games” a “Melancholia”.
«Ho iniziato che avevo sette anni, a 24 ho girato L’infanzia di un capo.
Ho capito presto che da attore sacrifichi la tua autonomia. Io invece avevo bisogno di libertà per essere un adulto felice».