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26 Agosto 2022di Romolo Augustolo
Qualche settimana fa quando ho appreso la scomparsa dell’attrice americana Olivia Newton John, una dei due protagonisti di un film che negli anni Settanta era un cult movie: Grease, sono piombato improvvisamente in quel tempo. Sono tornato nell’epoca in cui ero puro, in uno stadio nel quale conducevo una vita semplice, pulita, piena di gioie e con tante aspettative: non ero ancora stato contagiato né dal virus della cultura borghese, né dall’inganno della meritocrazia. Questi due accidenti ci rendono insoddisfatti e ci logorano costringendoci a sentirci colpevoli del mancato raggiungimento dei risultati attesi. Ma questi due malesseri sono pure la ricetta per dare vita a classi politiche che governano gli stati non nell’interesse della nazione, ma per i propri bisogni sfrenati di danaro e di potere.
Diversamente dalla maggior parte di miei conoscenti che millantano una formazione culturale già dal periodo prenatale, io da bambino non ascoltavo i madrigali trecenteschi composti da Casella, né quelli tardo cinquecenteschi di Gesualdo. Da fanciulletto per farmi addormentare non mi leggevano la Gerusalemme liberata, né il Simposio di Platone. I miei genitori erano persone semplici, borghesi, ma semplici, e non mi portavano a teatro a vedere il Giardino dei ciliegi di Čechov, né Casa di bambola del norvegese Ibsen. E ancora da adolescente non avevo idea di chi fosse Shakespeare, Pasolini, Oscar Wilde e soprattutto non mi ero ancora infangato in quel vortice senza fondo della Recherche. Non avevo contezza del cosmopolita von Rezzori e del suo Un ermellino a Cernopol. Non sapevo chi fossero De Sica, Rossellini, Fellini, Cukor, Fritz Lang, Orson Welles e Billy Wilder, che tanto ha lavorato con Marilyn Monroe. La Monroe la conoscerò da più adulto, ma solo perché se fossi nato completamente donna, mi sarebbe piaciuto essere come lei. Non ho frequentato musei fino all’età di diciotto anni. Non sapevo chi fosse Giotto, Tiziano, Michelangelo, Caravaggio, Canova; né sapevo chi fossero Berenson, Longhi e Venturi. Fino all’età che la Costituzione italiana riconosceva come requisito minimo per essere ammessi al voto del Senato della Repubblica, il mio cuore era ancora pieno di purità e di ardore come quello del maggiore Tildy, l’eroe malinconico del romanzo di von Rezzori. Ma poi improvvisamente ho contratto il virus.
Il perfido ha cominciato a lavorare un po’ per volta “insensibile, sottile, leggermente, dolcemente piano piano, terra terra, sottovoce, sibilando”, come nel libretto di Cesare Sterbini canta il don Basilio rossiniano. Più imparavo e più volevo conoscere, più ascoltavo e più volevo ascoltare, più leggevo e più volevo leggere, più vedevo e più volevo vedere. Allora non mi bastavano più i romanzi di fantascienza di Asimov o i Racconti del terrore di Poe. Sentivo il bisogno di conoscere i classici, prima quelli greci e poi quelli latini. Dovevo cimentarmi con lingue nuove, sconosciuta la prima, perché non ero tra gli eletti frequentatori del liceo classico, e scolastica la seconda. Questo enorme arricchimento mi ha dato l’illusione di essere più forte mi ha mostrato una idea illusoria di riscatto che mi ha imbrigliato sempre di più nelle maglie della cultura borghese. Queste maglie come le sirene ad Ulisse danno impressione di una soavità e di una beatitudine sotto le quali si nasconde una insoddisfazione sempre più profonda e sempre più irrinunciabile. Mi sono sentito come il Carlo pasoliniano che non avendo i mezzi per distinguere il male, si illude, mentre lo seviziano a turno, di essere puro perché se pure a faccia in terra riesce ancora a vedere il cielo stellato. Ma questo non basta, saremo sempre infelici e sempre alla ricerca di qualcosa in più, non ci basteranno le sublimi note e i testi degli eroi e delle eroine verdiani. Sentiamo il bisogno, perché crediamo che l’Ottocento sia per la musica un secolo non da intellettuali, di ascoltare le note logore, leziose e noiose di Händel o di Vivaldi, al posto delle sublimi orchestrazioni di Puccini o di Wagner. Cominciamo a credere che i veri intellettuali siano quelli capaci di sintetizzare in poche frasi il contenuto di un testo o il significato di un’opera d’arte, in quale espressione umana essa sia realizzata. Ma non ci basta, arriviamo a credere di essere noi stessi degli intellettuali perché ci siamo accorti che le cose che ascoltiamo, che vediamo che leggiamo si parlano tra di loro: “i libri si parlano tra loro” come ha detto Umberto Eco, ci sembra si essere nel punto più alto di quell’empireo culturale creato dalla classe borghese per stordire le menti libere e dare loro l’illusione del raggiungimento di un traguardo. Ma quel traguardo non si raggiunge mai o forse la nostra esistenza sarà in grado di raggiungerlo in tutta una vita, proprio come due rette parallele che sappiamo si incontreranno certamente in qualche punto, ma la nostra mente non sa né dove, né quando. Ci sentiamo però parte di una élite, siamo sudditi, ma siamo parte di un circolo ristretto di eletti. Tutta gente reietta, meschini di ogni specie, approfittatori, arrivisti, prevaricatori, sudditi ma senza una coscienza di classe. Siamo in trappola, in una trappola dorata, ma in trappola e quando siamo soli con noi stessi i ‘fantasimi’ dell’insoddisfazione e dell’ingiustizia diventano incubi e ci attanagliano anche ad occhi aperti riusciamo a sentire “le orme dei loro passi spietati”, e non riusciamo neanche più a dormire. Lo stato di falsa atarassia nel quale crediamo di essere si disgrega appena la nostra coscienza fa i conti con l’umiliazione e la discriminazione prodotte dalla tirannia meritocratica sotto la quale la cultura borghese ci ha relegati.
Si ripiomba nelle grinfie di quella élite dalla quale siamo consapevoli di essere esclusi, ma che fingendo di comprendere la tradizione culturale della sinistra, in realtà volta le spalle a chi non è membro di quella élite. Volta le spalle ai milioni di operai che ogni giorno dalle prime luci dell’alba si sporcano le mani con la vera fatica, quella fatica che brucia e fa sudare e che tiene accesa sempre la speranza di un miglioramento dalla propria condizione.
Si perpetra in questo modo sulla ‘classe operaia’ l’ennesimo tradimento: la retorica dell’ascesa. Questa ‘ondata populista’ che ormai da un trentennio ci grida che abbiamo tutti le stesse opportunità, ci dà soltanto l’illusione di credere che se si arriverà ad emergere ce lo saremo meritato, ma se non avremo la forza di ‘elevarci’ ad una diversa posizione nella società, la responsabilità sarà soltanto nostra. E ci sentiamo colpevoli per qualcosa che ci era sembrata una giusta causa. Ma l’inganno è proprio nel farci credere che tutti i nostri sforzi non sono stati sufficienti, che non siamo stati così bravi nello studio e nella formazione culturale da meritarci di emergere. Dovrebbero dirci che quelli che emergono, se pure in rarissimi casi bravi, hanno sempre un ‘santo in Paradiso’. Hanno il loro mentore spietato che in cambio della totale sottomissione gli concede l’illusione di credere che siano ‘emersi’. Questi che predicano urlando “Audite Verbum Rapacitatis Et Estis. Memores” (udite la parola della ingordigia e ricordatela), ci fanno credere che la nostra vita, il nostro tempo sia una sorta di ‘Arcadia’ dove vivremo “au bout de souffle”.
Allora devo pensare – e qualcuno potrebbe dire che è un pensiero reazionario – che per vivere degnamente bisogna non avere false sovrastrutture culturali che generano una falsa democrazia che si fonda sulla falsa credenza populista che premia “chi lavora sodo e rispetta le regole e si eleva fino a raggiungere il limite del proprio talento”.
(riceviamo e pubblichiamo)