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12 Luglio 2022Libri Nel saggio di Gabriella Piccinni l’analisi dell’affresco di Ambrogio Lorenzetti come laboratorio di comunicazione politica.
di Roberto Barzanti
Il governo non navigava in acque tranquille quando fu deciso di incaricare Ambrogio Lorenzetti di concepire e dipingere un grande affresco nella sala dove si riunivano i Nove al potere, nel Palazzo del Comune di Siena.
L’ambizioso progetto, che Gabriella Piccinni, professoressa emerita di Storia medievale dell’Ateneo, ha denominato Operazione Buon Governo Un laboratorio di comunicazione politica nell’Italia del Trecento (Einaudi) aveva l’obiettivo di ravvivare il consenso affievolito dall’iniziale 1285 e di essere compreso da tutti, da attrezzati intellettuali e cittadini sempliciotti, perfino da «ogni piccolo banbolino». Lungo i trentasei metri delle tre pareti — Ambrogio portò a termine l’impresa nel 1338 — dovevano essere evidenziati i principi teorici e i risultati da ottenere, la dottrina dell’élite e i benefici effetti civili conseguenti. Facendo proprio questo assunto la minuziosa e vivace analisi sceglie un metodo che collega strettamente i testi che incorniciano le scene con le immagini che li rendono concretamente verificabili: le parole dei cartigli e la «dolce vita» promessa. E lo attua con un puntiglio filologico che punta a storicizzare al massimo grado un capolavoro desemantizzato con disinvoltura e impiegato come pubblicità buona per ogni uso. Siamo invitati a mettere in relazione ciò che talvolta scopriamo per la prima volta con i significati di una pedagogia, che si forma in un tempo preciso ma è fuori dal tempo. Il realismo come vocazione fondante della creatività europea esplose con l’avvento della borghesia, ma continua a possedere un’avvincente universalismo nella nebbiosa babele dei nostri anni. Il reale che diventa sensibile acquista nell’arte la stessa permanenza dei sogni e delle immagini che animano la nostra esperienza. Viene in mente la coeva figuralità che Eric Auerbach esaltò in Dante, pervaso dall’eterno della teologia eppur immerso nel racconto dei drammi alla ribalta.
In questa sapiente guida si dispiega un’esperienza che non tralascia alcun dettaglio e colloca quella Siena, quel paesaggio, quell’affaccendarsi per strade e campi, in un variegato contesto comparativo. «In questo viaggio — confessa l’autrice — ho voluto fare del Buon Governo più che un oggetto di ricerca il mio punto di osservazione. Ho voluto avvicinarmi un po’ al mistero della forza comunicativa del prodigioso affresco». Il Popolo, secondo Max Weber, costituì «la prima associazione politica che fosse scientemente illegale e rivoluzionaria» e Siena a suo modo si sintonizzò con l’impetuosa trasformazione. La falsariga contro cui leggere, in trasparenza, il racconto è l’anonima Canzone di sessantadue versi che corrisponde quasi letteralmente a gesti e movimenti degli attori. Un Vecchio saggio impersona il Comune che, a sua volta, incarna il Bene Comune ed è il dominus sorretto dalla Giustizia: sotto siede Concordia, dalla quale si diparte una fune che associa un ceto dirigente concorde non perché obbligato da una corda, come spesso si è ritenuto, ma da un’unità effettiva di cuori e di volontà. Ed era «un ceto politico allargato» e inclusivo: lo dimostrano gli abiti indossati. Vien meno, quindi, l’interpretazione allegorica della danza delle dieci fanciulle che — fuori scala — si sfrenano nella parete destra disegnando una esse con il festoso gioco dell’arco. Puntualizzazioni di questo tipo s’incontrano a iosa, e sempre si rinvia a norme e dettami in voga. I decenni dei Nove furono contrassegnati dalla traduzione in volgare dello Statuto del 1309-1310 e da una raccolta in latino di leggi (1324-1344) che attesta la fortuna del diritto romano e si esprime del simbolo della lupa, vera e propria citazione della lupa capitolina. Anche in questo caso il libro taglia decisamente con sofisticate incertezze. L’idealizzazione che il ciclo emana è discussa con severità. Negli anni del declino le modalità del comando erano passate da un’accorta egemonia dei «mercanti della mezza gente» ad un regime del terrore che desse sicurezza. Securitas svolazza esibendo il modellino di un ladro impiccato. A petto di un possibile governo proteso al Bene Comune, cioè a limitare il Bene Proprio (altra chiosa che deideologizza un concetto banalizzato), trionfa la Tirannia in un desolante panorama apocalittico di impressionanti rovine e mostruose bestie.
Qua e là spuntano nell’appassionante saggio temi molto à la page , che però non sfociano mai in grossolane attualizzazioni. Non si esita a definire la rappresentazione propagandata come una «repubblica (con la minuscola!) fondata sul lavoro», ma si aggiunge subito ch’è da preferire «dei lavoratori» in omaggio alla loro individuale alacrità. E quanto alla centralità della Pace non si manca di far notare che la candida matrona in riposo sta per una contrattata pacificazione e «tiene le armi a portata di mano». È lecito ipotizzare che all’audace progetto abbia contributo una sorta di laboratorio forte di esperti in molteplici saperi: «Esso si rivela frutto — afferma Gabriella Piccinni — di un’operazione collettiva, nata dall’humus culturale di una comunità di cui l’artista è partecipe e ne esprime con magnifica inventiva aspirazioni e intenti». La provoco con un’allusiva forzatura: «Si mira a proporre un paragone con la chiassosa sguaiatezza odierna?». «È un fatto che oggi subiamo — la risposta è netta — una fastidiosa, urlata povertà di linguaggi, pur nell’abbondanza dei mezzi che la comunicazione ha, dalla stampa con impostazioni assai diverse, alla radio, alla televisione, ai social media in continua evoluzione, e che la politica senza cultura si ritrova priva di lingua, di metafore, di visioni chiare e coinvolgenti». Una città toscana negli anni Trenta del Trecento innovò i linguaggi della comunicazione politica assegnando finalità complementari e intelligibili a principi sublimati in celesti allegorie e a persone ritratte in un’abituale quotidianità di comportamenti. Chi osservava era portato a identificarsi in quegli affollati spazi.
L’autorialità collettiva era riuscita a far coincidere auto rappresentazione del governo e corpo civico, rafforzando l’egemonia con lo stupefacente risarcimento dell’arte. Il mitizzato Buon Governo è restituito a «una lettura più integrata e contestualizzata»: magistralmente sottratto a arbitrarie e aneddotiche annessioni.
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