L’uomo che divenne nero
19 Maggio 2024L’incredibile storia dell’Isola Inaccessibile, e dei due fratelli tedeschi che ci vissero da soli per due anni
19 Maggio 2024Quando ci fu l’11 settembre 2001, Slavoj Žižek uscì con un piccolo libro chiamato Benvenuti nel deserto del reale dove provava ad analizzare quella che, secondo lui, era la natura simbolica dell’attacco terroristico alle torri gemelle. La sua tesi – provocatoria ai più, ma in realtà assolutamente consistente con una lunga tradizione di critica dell’ideologia influenzata dalla psicoanalisi freudiana – era che il vero trauma dell’attacco terroristico non nasceva dall’irrompere nella pacifica e democratica America del furore terroristico del fondamentalismo islamico di Al Qaeda (cioè l’irrompere nel famigliare della propria casa di un Fuori totalmente sconosciuto e inaspettatamente violento), ma dalla sua natura per così dire “fantasmatica”.
L’11 settembre non apparteneva a un Fuori assoluto: non veniva da un mondo “altro” (l’islam barbarico contro l’occidente civilizzato secondo l’argomentazione di Oriana Fallaci), ma dall’interno denegato del proprio inconscio collettivo. Gli Stati Uniti in effetti avevano più volte fantasticato della distruzione dei propri grattacieli o delle proprie città in una lunga serie di film catastrofici: l’attacco castrante al simbolo fallico per eccellenza di New York – il suo più alto grattacielo – era già presente nei sogni hollywoodiani precedenti quegli attentati. Il vero trauma era allora quello di vedere emergere nella realtà parte del proprio universo fantasmatico. Di vedere, per così dire, esauditi i propri desideri inconsci. E c’è solo un modo – ci dice Žižek – per chiamare quel fenomeno per cui i propri desideri inconsci diventano realtà: ed è incubo.
Oggi sono passati più di vent’anni non solo da quell’evento, ma anche da quel libro e da quell’analisi. Ed è come se l’autoreferenzialità del nostro mondo (in una sorta di intensificazione della postmodernità che è, nel medesimo tempo, sempre più ironica e distanziante, ma anche sempre più affascinata da immediatezza e passaggi all’atto) avesse fatto un ulteriore giro. E allora l’effetto che proviamo nel vedere un film recentemente uscito in sala come Civil War è che si tratti di un’operazione che è già di per sé meta-filmica e auto-interpretante: come se parlare oggi della guerra civile americana fosse già un parlare del fatto che quell’evento sia da anni parte della retorica politica americana; che i discorsi che i media americani hanno fatto del rischio di guerra civile dopo l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 fossero già implicitamente coscienti della natura intrinsecamente fantasmatica di quell’evento.
Se nell’analisi di Žižek, l’11 settembre rappresentava l’emergere nell’immaginario di un reale fantasmatico denegato e rimosso – che faceva terrore proprio perché parlava di noi stessi più che dell’altro del fondamentalismo islamico –, Civil War è come se fosse già cosciente che parte del discorso americano sulle cultural wars sia già intrinsecamente meta-riflessivo: cosciente cioè della possibilità di sfociare in una guerra civile vera e propria. Che Alex Garland allora “si immagini” lo sfociare della cultural wars in una guerra non più metaforica ma reale, non ha più alcun effetto traumatico perché è qualcosa che è già parte del nostro immaginario da anni.
E tuttavia il limite maggiore di Civil War – ci permettiamo di usarlo come esempio “sintomatico” per introdurre un discorso sul cinema oggi – non sta tanto nella sua ideologia politica spontanea (Garland non va molto al di là di un centrismo moderato, che ci vuole mettere in guarda dagli eccessi della violenza) quanto nel tipo di immagini che usa. La sua ideologia più ancora che nel contenuto, sta nel tipo di immagini che stanno al centro del film: quelle cioè dei giornalisti che sul campo di battaglia devono andare a immortalare in un fotogramma il momento drammatico della realtà.
È interessante (ed è stato poco notato nelle recensioni al film) che un’opera che si immagina una realtà parallela – ma che sostanzialmente parla del nostro mondo: quello delle immagini digitali e della pervasività delle camere digitali nel mondo – debba usare un modello di stampa da anni ’70 e ’80: quello dei reporter che rischiano la vita per stare al centro dell’azione, e che poi riportano quello che succede a chi non è presente sul campo di battaglia. Il problema è cioè quello di andare nel posto dove nessuno può andare, per far vedere a chi non c’è quello che sta succedendo (fino al punto da sovrapporre alla macchina fotografica il mirino del fucile, e di fare del giornalismo embedded una variazione sul tema bellico, esemplificato dal doppio senso in inglese del verbo to shoot, che vuol dire sia sparare che scattare una fotografia).
È un paradigma duro a morire: quello del cinema che “guarda” la realtà e che dovrebbe dire qualcosa su di essa. Ed è interessante partire da qui per pensare all’edizione di quest’anno del Festival di Cannes, che è iniziato martedì con la cerimonia di inaugurazione e il film d’apertura, Le Deuxième acte di Quentin Dupieux. E che, come spesso accade nei festival oggi, ha un programma infarcito di film che sono, per così dire, “in presa diretta sull’attualità”. Si va dal cortometraggio Moi Aussi di Judith Godrèche (capofila non solo di alcune denunce di molestie da parte di diversi grandi registi francesi ma anche del movimento che sta chiedendo di dimissioni di Dominique Boutunnat, processato a giugno per aggressioni sessuali, ma attualmente ancora presidente del Cnc, il centro nazionale del cinema francese) a L’invasion di Sergei Loznitsa sull’invasione russa dell’Ucraina, a Lula di Oliver Stone, La belle de Gaza di Yolande Zauberman (storia LGBT tra Tel Aviv e Gaza), fino a The Apprentice, una sorta di biopic sul giovane Donald Trump.
La domanda ci sembra essere questa: deve l’immagine cinematografica essere un dispositivo di rappresentazione della realtà? Una macchina da presa che getta luce sui coni d’ombra del nostro mondo, portandoci a vedere ciò che non è ancora visibile? O la natura dell’immagine è irriducibile al paradigma della rappresentazione, e ha una natura piuttosto “fantasmatica”, di qualcosa che supplementa e sostiene il nostro posto del mondo, a un tempo rimuovendo (ma facendo anche riemerge nella forma del ritorno del rimosso) quello che perturba e provoca angoscia?
Nel primo l’immagine sta fuori il mondo, e deve per così dire restituircelo nella forma più fedele possibile. Nel secondo l’immagine è già parte del tessuto stessa della nostra percezione della realtà, e compito del cinema è quello di operare una sorta di decomposizione interna, che nel tirare fuori i fantasmi inconsci del nostro immaginario, produce un’operazione di straniamento della naturalezza con la quale normalmente guardiamo la realtà.
Il film d’apertura di questa edizione, appunto Le Deuxième acte di Quentin Dupieux – prolifico e dissacrante autore francese contemporaneo a cui per la prima viene dato uno slot così prestigioso come quello del film d’apertura – compie a questo riguardo un’operazione interessante. Dupieux è consapevole che l’immagine oggi non può più essere meramente rappresentativa – credere a una “storia”, presi come siamo da mille dispositivi distanzianti e distraenti, non è più possibile – ma può solo mettersi “in mezzo” a un flusso di discorsi, immagini e rappresentazioni nel quale non c’è inizio e non c’è fine, e soprattutto non esiste più autenticità e finzione.
La storia del suo film, che, come viene detto dai personaggi stessi, è di una banalità sconcertante, è quella formata da due coppie di dialoghi: quello tra due amici, dove uno dei due vorrebbe liberarsi di una insistente spasimante da cui però l’uomo non è attratto; e quella della sua amante, che sta portando il padre all’appuntamento, per ufficializzare la loro unione. Nel frattempo però in questi due dialoghi viene continuamente sfondata la “quarta parete” e accanto al film – che viene “commentato” guardando lo spettatore – si vedono gli attori discutere di loro stessi, del loro di lavoro e di quello che, ci viene detto, è il primo film interamente diretto dall’intelligenza artificiale.
Se il divertimento per il gioco di Dupieux dura poco – nonostante i soli 80 minuti di durata, il film sarebbe forse stato più efficace della lunghezza di un corto o di un mediometraggio – è perché il film è troppo dentro all’esperienza quotidiana del nostro immaginario, dove non è più possibile distinguere tra un’immagine rappresentativa e una manipolatoria e dove ironia e serietà stanno su una linea di continuità passando costantemente l’una nell’altra (“metaforizzato” platealmente nel film alla fine nella lunghissima sequenza dei binari di un carrello a indicare una mancanza di ogni distinzione).
Contrariamente a Civil War, che nonostante vorrebbe essere un film del futuro è ancora ostaggio di un’idea di immagine del passato che deve cogliere e rappresentare il mondo come correlativo oggettivo della macchina da presa, Dupieux sa che l’enigma dell’immagine di oggi non sta nella sua produzione ma nella sua eterna manipolazione, rimediazione, interpretazione. Le immagini non devono essere create ex novo: sono già qui. Il problema è come facciamo a guardarle. O per meglio dire, come le montiamo insieme facendone emergere il loro inconscio denegato.
Ma forse una risposta ancora più intrigante ci viene data dal bellissimo Ma vie, ma gueule di Sophie Fillières, film d’apertura della Quinzaine des cinéastes (che ha cambiato nome rispetto al vecchio Quinzaine des réalisateurs, per evitare la declinazione al maschile). Purtroppo, si tratta di un film postumo dato che la regista è scomparsa appena terminate le riprese e la post-produzione è stata portata a termine con l’aiuto dei figli. Sebbene si tratti di un’opera intrisa da un senso di morte e di disincanto che non può non essere messo in relazione alla lunga malattia della Fillières, non si tratta direttamente della storia biografica della regista, ma del racconto di una crisi soggettiva di una donna di 55 anni. Separatasi del marito, con un rapporto difficile con i due giovani figli, alienata dal lavoro, e in generale – e forse in maniera ancora più subliminalmente efficace – sempre più sconnessa dal mondo che la circonda, la storia della protagonista Barberie Bichette (che suo malgrado, viene spesso diminuito in Barbie) è la storia di una progressiva perdita del senso di realtà.
E se il cinema tradizionalmente ha sempre fatto fatica a mettere in scena l’esperienza dell’allucinazione e della psicosi – è una forma d’arte che è già troppo di per sé allucinatoria per riuscire davvero a cogliere la specificità di quell’esperienza – questo film sceglie una via minimale di straordinaria efficacia tutta giocata su piccole incongruenze e su tasselli di realtà che iniziano a venire meno piano piano, quasi in modo impercettibile. Il momento dell’internamento psichiatrico (quello che in Italia chiamiamo TSO), lungi dall’essere l’evento dove viene tracciato il confine tra realtà e follia (che è un confine in un certo senso confortante per chi vorrebbe espellere la follia ai margini del proprio mondo), è allora semplicemente un momento di un lungo processo in cui il registro dell’esperienza inizia a essere colorato da un sottile senso di paradosso.
Ma vie, ma gueule è davvero un film unico per l’attenzione e la sensibilità con cui mette in scena una psicosi, ma è anche in un certo senso un film in cui l’immagine non appartiene né alla realtà né alla follia. Perché anche tra queste due sfere esiste una linea di continuità: quella stessa linea continua che Dupieux ci ha fatto vedere nella forma del binario infinito. E che forse allegorizza efficacemente un universo dell’immagine filmica ormai infinitamente espanso, esploso in una miriade di schermi e di rimediazioni, e dove sembra che non siamo più in grado di vedere né l’inizio né la fine. E dove tra il mondo della realtà e quello che vediamo in modo allucinatorio su uno schermo sembra non esistere più alcuna soluzione di continuità.