ALESSANDRO BARBERA
MARCO BRESOLIN
Grande è la confusione sotto il cielo del Pnrr. L’ultima decisione del governo italiano, che ha comunicato ufficialmente a Bruxelles il suo interesse a ottenere ulteriori prestiti, ha un po’ sorpreso la Commissione europea. Non soltanto perché nelle ultime settimane l’esecutivo aveva segnalato il rischio di non riuscire a spendere in tempo tutte le risorse già assegnate all’Italia, tanto che esponenti della maggioranza avevano persino ventilato l’ipotesi di rinunciare a una parte dei fondi a debito. Ma anche perché la richiesta giunta negli uffici di Palazzo Berlaymont è assolutamente generica e non accompagnata da una cifra precisa. Secondo quanto riferiscono fonti di governo, la scelta di “prenotare” ulteriori risorse sarebbe stata sollecitata dai tecnici per lasciarsi aperta la possibilità di chiedere parte di quei fondi qualora ce ne fosse la necessità. Il problema è che l’esecutivo sembra brancolare nel buio dei “qualora”.
«Il governo ha detto di voler modificare il piano – si sfoga una fonte Ue –, ma siamo nella seconda metà di aprile e oltre a non aver ancora definito i progetti da finanziare sembra non avere ancora chiaro l’ammontare delle risorse che intende utilizzare». Dei dieci Paesi che hanno manifestato il loro interesse a richiedere altri fondi a debito, l’Italia è l’unico che non ha indicato la somma di cui ha bisogno. Per sottolineare la non linearità di questa scelta, a Bruxelles fanno l’esempio della Grecia. Anche il governo di Atene aveva voluto subito l’intero ammontare dei prestiti a sua disposizione, ma ora ha presentato una domanda ben definita: la richiesta è di 5 ulteriori miliardi.
L’atteggiamento del governo viene definito «preoccupante» perché ogni giorno che passa è un giorno di ritardo, visto che le scadenze del Pnrr non possono essere modificate: le risorse per gli investimenti vanno materialmente spese entro il 31 agosto del 2026, ma tutte le sovvenzioni a fondo perduto vanno «impegnate giuridicamente» entro il 31 dicembre di quest’anno, altrimenti c’è il rischio di perderle.
L’impressione è che il governo, dopo aver cercato di scaricare la responsabilità dei ritardi su Draghi, sia entrato in confusione. Raffale Fitto appare solo a gestire il delicatissimo dossier del Pnrr, forse il più importante di tutti per Giorgia Meloni. Da un lato il ministro degli Affari comunitari – ieri in aula alla Camera – ha rassicurato sul rispetto dei tempi per la revisione del piano. Tempi, per inciso, sui quali Commissione europea e governo sono divisi: la prima aveva chiesto una proposta entro il 30 aprile, Fitto ha preso tempo fino ad agosto. Non solo: l’esponente di Fratelli d’Italia ha anche promesso chiarezza rispetto ai programmi «non realizzabili» del piano. Dall’altra c’è la richiesta (non quantificata) di accedere ai fondi rimasti inutilizzati del RePowerEu. Come detto, la scelta sarebbe stata sollecitata dai tecnici, peccato che nella maggioranza c’è chi – come il leghista Claudio Borghi – contesta perfino il pieno utilizzo dei prestiti che l’Italia ha già ottenuto. Anche se il tasso d’interesse resta più conveniente rispetto a quello dei Btp: attualmente la Commissione sta emettendo bond su scadenze medie con un rendimento del 3%, decisamente inferiore a quello dei titoli decennali italiani (che sono attorno al 4,3%).
C’è poi un aspetto curioso in tutta questa vicenda: il silenzio sempre più rumoroso del ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti, il quale – la cosa nei palazzi è nota – non è mai stato entusiasta del progetto di Fitto (sostenuto da Meloni) di trasferire la regia del piano dall’Ispettorato della Ragioneria a Palazzo Chigi, accentrando anche le competenze dell’Agenzia per la coesione. Una revisione dei poteri dai tempi peraltro non brevi: il decreto che riforma tutta la governance dei fondi comunitari (ordinari e straordinari) verrà approvato in via definitiva dal Parlamento solo domani, dopodiché occorreranno settimane per le norme di attuazione.
Nel frattempo a Bruxelles attendono di capire le intenzioni del governo anche per decidere come gestire le risorse residue del Recovery Plan europeo. La Commissione ha ricevuto richieste di prestiti da dieci Paesi, comprese l’Italia e la Grecia. Le fette più grosse andranno alla Spagna (84 miliardi), alla Polonia (23 che si aggiungono agli 11,5 già richiesti), al Portogallo (11,5 oltre ai 2,7 già richiesti) e alla Repubblica Ceca (11 miliardi). In totale le richieste ammontano a quasi 148 miliardi, ben al di sotto dei 225 miliardi ancora disponibili. Questo vuol dire che ci sono ancora 77 miliardi che potranno essere ridistribuiti anche a chi ha già esaurito la quota a disposizione (pari al 6,8% del Pil). Nel riassegnare le risorse, la Commissione «applicherà i princìpi di parità di trattamento, solidarietà, proporzionalità e trasparenza» e valuterà le richieste dei governi in base alle loro esigenze e alla loro «capacità di assorbimento».