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21 Novembre 2022di Marcello Flores
Lo storico inglese Ian Kershaw ha studiato da vicino il lato oscuro della storia — è il maggiore biografo di Adolf Hitler, considerato da molti una sorta d’incarnazione del male. Laterza ha appena pubblicato il suo libro L’uomo forte, che passa in rassegna una serie di leader politici.
Lei è riuscito a raccontare la storia d’Europa nel Novecento — meglio ancora, del potere come si è costruito in Europa nel Novecento — attraverso una serie di personalità che hanno svolto un ruolo rilevante nella storia del XX secolo. Come le è venuto in mente di realizzare questo studio?
«Negli ultimi anni ho scritto due volumi sulla storia dell’Europa nel XX secolo in cui sono presenti tutti gli individui su cui mi sono focalizzato in questo libro. Mi sono accorto che in quello sguardo storico panoramico non ero stato capace di esplorare a sufficienza il ruolo degli individui nell’avere modellato il secolo. Così ho pensato di scrivere un libro che ponesse l’importanza e il potere dei singoli individui direttamente al centro dell’analisi».
Molti si sono interrogati sul ruolo delle personalità nella storia, sull’importanza di singole figure nell’indirizzare gli eventi verso certi esiti piuttosto che altri. In questo lavoro lei si è rifatto a qualche modello o ha preferito che fosse la storia stessa che ha ripercorso a rispondere a questo interrogativo?
«Il libro offre una valutazione empirica del ruolo degli individui di cui ho scelto di occuparmi. Esso non si basa su una teoria o un modello precostituito. Nell’introduzione, tuttavia, mi riferisco a quanto sostenuto da Marx in Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, scritto nel 1852, secondo cui “gli uomini fanno da loro stessi la storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in condizioni scelte da loro stessi”. Anche per un non marxista come me si tratta di una riflessione interessante. L’ho presa come una sorta di leitmotiv per il mio approccio che, in ogni capitolo, esamina l’interazione della personalità con le precondizioni esistenti prima di esaminare come l’individuo in questione fosse capace di prendere il potere e poi esercitarlo, e quale eredità abbia lasciato».
Lei ritiene che le personalità forti, carismatiche, siano presenti quasi sempre in momenti di crisi. E ricorda che uno solo tra i suoi personaggi non sembra affermarsi in un’epoca di crisi, anche se poi si è trovato a vivere una crisi epocale (la caduta del Muro di Berlino) che nessuno si aspettava, il Cancelliere tedesco Helmut Kohl. Pensa che, a differenza di Kohl, Gorbaciov fosse consapevole della crisi dell’Urss, anche se non dell’esito che avrebbe avuto?
«La crisi è davvero una componente chiave del libro per comprendere i modi con cui ha aperto la strada agli individui per assumere il potere, spesso con conseguenze catastrofiche. Si potrebbe supporre che più la crisi è stata profonda e onnicomprensiva, maggiore sia stata la distruzione delle forme di governo esistenti e maggiore la possibilità per il singolo individuo di esercitare un potere ad ampio raggio, spesso dispotico. Gorbaciov salì al potere quando l’Unione Sovietica stava affrontando gravi problemi strutturali, economici e politici, anche se non era sull’orlo di un collasso imminente. Presto si rese conto di essere stato travolto da un cambiamento radicale che non poteva controllare. Ha iniziato con la volontà di riformare il sistema ma ha finito per distruggerlo completamente».
Le sue non sono biografie, ma analisi del potere, di come alcune persone lo hanno conquistato, mantenuto, e quale eredità hanno lasciato. È giunto a conclusioni o riflessioni che non aveva fatto mai prima nel suo lavoro di storico?
«Ho lavorato a lungo su argomenti simili o adiacenti, più — ovviamente — nella mia biografia su Hitler, quindi non si trattava, in questo libro, di arrivare a conclusioni che non avevo mai raggiunto prima. Però ho imparato molto sugli individui che stavo esaminando. In termini generali sono stato colpito ancora una volta con forza dai pericoli di guardare a un individuo per determinare la salvezza nazionale, offrendo soluzioni semplicistiche a problemi complessi e spesso intrattabili. Mettere al potere qualcuno, di solito una personalità sorprendente, che afferma di avere una panacea per la crisi di una società, si è rivelato spesso, storicamente, un disastro. La lezione — oggi — è di essere molto critici e cauti nell’accogliere il messaggio dei politici populisti. Bisogna stare attenti a che cosa si desidera!».
Lei è l’autore di una tra le più importanti biografie di Hitler. In questa galleria di personaggi è la figura forse più anomala, più diversa, «grande» nella sua tragica negatività. È così?
«Io respingo, nell’introduzione del libro, la nozione di “grandezza” storica. Il termine è impossibile da definire in alcun modo che lo renda analiticamente utile. In senso generale, di solito, significa semplicemente che un individuo è stato estremamente importante e significativo. Ma questo risulta inseparabile da un giudizio morale positivo. Forse per il passato lontano non ha importanza giudicare un individuo come un «grande» leader. Ma nella storia recente è inevitabile. Suggerire che Hitler potrebbe essere visto come dotato di “grandezza negativa” ignorerebbe la dimensione morale di un leader politico che è stato il principale responsabile della Seconda guerra mondiale e del genocidio. Invece di usare un termine indefinibile, moralmente carico, che è comunque soggetto nel tempo a valori mutevoli, in questo libro preferisco concentrarmi sulla valutazione dell’impatto, un concetto che è separato dalla moralità e può essere applicato a leader che vediamo come la personificazione politica del male, ma anche a quelli per cui potremmo provare ammirazione».
La storia del Novecento è determinata dai leader politici o questi sono il risultato di dinamiche che non controllano ma che solo rappresentano?
«Il libro parla in sostanza delle determinanti impersonali di un dominio personale. In questo approccio i determinanti strutturali producono il potenziale perché un individuo possa plasmare la storia personalmente. Non esiste, come sottolineo, una formula matematica per valutare i ruoli del leader individuale e le determinanti impersonali del cambiamento storico. Ciascuno tra gli individui esaminati ha acquisito potere in condizioni che non aveva creato, ma di cui ha comunque beneficiato. Senza gli individui in questione la storia sarebbe stata diversa. Ma, per quanto potenti, essi non potevano controllare tutte le forze che li avevano portati al potere o che accompagnavano il loro esercizio del potere. La guerra offre l’esempio più ovvio, come si vede chiaramente nei casi di Benito Mussolini e di Adolf Hitler».
L’influenza di singole personalità è massima secondo lei dopo grandi sconvolgimenti politici, ed è meno tipica nelle democrazie. Anche se lei si limita alla storia d’Europa nel Novecento, come vede in questo secolo il ruolo di figure come Trump, Putin, Xi Jinping, Erdogan?
«Dovremmo aspettare un bel po’ di tempo prima di poter valutare appieno la loro eredità. Ma è ovvio adesso che il ruolo personale e l’impatto di questi individui è della massima importanza nel plasmare il XXI secolo. Ognuno di loro rappresentava correnti politiche e sociali già preesistenti nei propri Paesi, ma ognuno di loro ha indiscutibilmente lasciato un’impronta personale enorme nella storia dei propri Paesi e del mondo intero».
Nel racconto di Mussolini sostiene che la sua vittoria, la marcia su Roma di un secolo fa, fu più il risultato dell’incapacità e debolezza delle forze liberali (e anche di quelle socialiste e cattoliche) che non merito della sua sagacia tattica e della sua capacità politica. È così? Fu davvero un dittatore debole, come anche il re fu un sovrano debole? E come fece a durare così a lungo?
«Io non sminuisco l’abilità di Mussolini nello sfruttare le condizioni dell’Italia nell’immediato dopoguerra. Ma questo non sarebbe stato di per sé sufficiente per portarlo al potere senza la debolezza delle élite esistenti nel padroneggiare i problemi che hanno dovuto affrontare. Erano abbastanza potenti da distruggere il sistema politico esistente, ma non abbastanza potenti da sostituirlo senza coinvolgere i fascisti nel governo. Questa fu la situazione in cui offrirono a Mussolini la carica di presidente del Consiglio. Quanto al re, non c’è contraddizione nel vederlo debole, e al tempo stesso vedere la base strutturale della monarchia ancora abbastanza forte da impedire a Mussolini di realizzare il suo desiderio di abolirla».
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