L’argomento è spigoloso ma avvincente, se preso con il taglio giusto. Ha messo alla prova generazioni di architetti – dai più acuti a quelli ottusi – in ogni cantone del mondo conosciuto. Fu causa di intricati conflitti (geometrici), simbolo di rivoluzioni (costruttive), oggetto di celebri poemi (architettonici) e motivo di eruditissime discussioni, spesso pungenti.
Lo avrete capito: parliamo dell’angolo, ovvero di quello speciale luogo geometrico in cui s’incontrano le due facciate di un palazzo, e dove a ben guardare accade anche molto altro. L’angolo è difatti la linea verticale che separa la luce dall’ombra; è il confine che ordina gerarchicamente le parti di un edificio (il fronte principale e quello secondario); il limite architettonico in cui tutti i nodi tecnici, funzionali ed estetici vengono al pettine. In passato, l’angolo era il punto che reggeva l’intero castello (la pietra angolare); nel Novecento, al contrario, è stato spesso «svuotato» per far emergere nuove visioni.
«Come i demoni della tradizione religiosa e filosofica, benefici o malefici, gli angoli assumono un ruolo di intermediazione, di incontro e di scontro», scrivono Renata Samperi e Paola Zampa, curatrici della collana «Angoli & demoni», pubblicata da Campisano Editore, che oltre al titolo geniale ha un formato ottimo (13×18 cm) e – ça va sans dire – gli angoli smussati. L’idea è chiara: rileggere alcuni capitoli della storia dell’architettura da una prospettiva estremamente specifica, mediante un approccio analitico – quasi ossessivo – capace però, alla fine, di trascendere il dettaglio e consegnare una nuova immagine complessiva.
I primi a cogliere la portata del tema furono i Greci, che nel disegnare i loro templi si tormentavano attorno al «conflitto angolare dell’ordine dorico». Sull’angolo, la posizione di metope e triglifi rispetto alle sottostanti colonne comportava squilibri ritmici, e per questo escogitarono licenze, trucchi e distorsioni ottiche (la contrazione angolare) per salvarsi in corner. Se del problema si occupò anche Vitruvio («nelli angoli si facci mezze methope della larghezza di mezzo modolo»), la discussione tornerà nel Rinascimento, con un tripudio di paraste, semiparaste, controparaste, colonne libere, accoppiate o «trine», pilastrini e pilastroni che stanno isolati o si eclissano a vicenda, mettendo in scena – proprio sull’angolo – la colta dialettica tra struttura reale (come l’edificio sta in piedi) e struttura rappresentata (come tale meccanismo è «raccontato»).
Il volume di Renata Samperi parla ad esempio delle soluzioni angolari di Palladio, attento alla statica («gli angoli […] deono essere fermissimi, e con lunghe e dure pietre come braccia tenuti») e capace di superare i modelli del passato, come si vede nella Basilica vicentina, nelle chiese veneziane, nei palazzi e nelle ville. All’angolo nord-ovest di Palazzo Te a Mantova, capolavoro di Giulio Romano, è invece dedicata parte del libro di Massimo Bulgarelli. In quello specifico cantone – il primo che si incontra dal centro cittadino – è riassunto il genio dell’artista, dal gusto per la metamorfosi all’illusionismo, e persino la proverbiale ironia, con colonne «claudicanti» che anticipano il «rovinismo raggelato» (parole di Manfredo Tafuri) del celebre cortile, dove i triglifi scivolano verso il basso e i timpani si spezzano.
Altra storia è quella di Francesco Borromini, architetto spigoloso e tetragono (ma amante del triangolo), raccontato da Richard Böesel. Secondo il biografo seicentesco Filippo Baldinucci, un giorno Gian Lorenzo Bernini chiamò il rivale «Tagliacantone», ovvero «uno che sfalsa gli angoli», secondo un duplice significato. Da un lato, si riferiva all’utilizzo «straripante in Borromini, dello smussamento obliquo, dell’arrotondamento, della dissimulazione dell’angolo retto o di altri stratagemmi atti a risolvere gli angoli interni e i cantoni esterni degli edifici». Dall’altro, nella definizione di «Tagliacantone» risuonava, sarcasticamente, un rimprovero di pedanteria, millanteria e vanità: mischiando le due accezioni abbiamo allora il «saccentone che – riflettendo e rimuginando sui difficili compiti formativi autoimposti – arriva ad inventare un nuovo linguaggio formale».
Tanti altri sono gli argomenti della collana (finora otto volumi), che forse pecca solo per la scelta di raggruppare in un unico blocco le immagini, rendendo più acrobatica la corrispondenza con le meticolose analisi testuali. Dall’«irregolare e vivacissimo gioco di sporgenze e rientranze» del Palazzo Ducale di Urbino (Francesco Paolo Fiore) si passa al capitello angolare del tempio di Bassae (Stefano Borghini), dall’angolo della Basilica Emilia (Paola Zampa) a quelli di Ferrara (Adriano Ghisetti Giavarina) e Poitiers (Camilla Ceccotti).
Siamo curiosi di vedere verso quali cantoni si spingeranno le prossime uscite, specie al di là del linguaggio classico dell’architettura. La rivoluzione costruttiva del Novecento, infatti, trovò nell’angolo il punto ideale da cui erodere – fino a sconquassare – la «scatola» edilizia tradizionale, come dimostrano gli angoli vetrati di Gropius e Mies van der Rohe, i cristalli dell’espressionismo tedesco, o gli edifici simili a schegge di Zaha Hadid, Libeskind e colleghi, in fuga dall’angolo retto. A quest’ultimo Le Corbusier dedicò un’ode nel 1955 (Le poème de l’angle droit), negli stessi mesi in cui a Ronchamp innalzava una cappella simile a un fungo, dove di retto non c’è nulla. Altri angoli meravigliosi, di una lista infinita, sono quelli del Flatiron Building a New York, della Chilehaus di Amburgo e del grattacielo Pirelli a Milano, dove lo «spigolo» è causa ed effetto di risonanze urbane. A sua volta, il rifiuto dell’angolo (vedi il Guggenheim di Wright, tondo in opposizione alla griglia di Manhattan) stimolerebbe ulteriori divagazioni. In fin dei conti, l’angolo è soltanto un pretesto, una buona scusa per tornare a ragionare su opere anche molto note, che una lente così specifica consente di scrutare da inedite angolazioni.