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10 Ottobre 2022Carlo Bonomi: “Subito un patto per l’Italia 50 miliardi per le bollette o l’economia non reggerà”
«C’è sempre la Sala Verde», ricorda Carlo Bonomi. È l’austero stanzone color palude di Palazzo Chigi in cui furono firmate l’intesa sui salari del 1992 e quella per la competitività del 2012, col grande tavolo consumato da infiniti dialoghi tentati, riusciti e falliti. «Il momento è grave, se cade l’industria cade il Paese, chiudono le imprese e si perde lavoro – ammette il presidente di Confindustria –: noi siamo pronti a rilanciare il confronto sull’economia a condizione che tutti abbiano lo spirito giusto, la consapevolezza che per raggiungere un accordo occorre lasciare qualcosa sul tavolo».
Torna così il “Patto sociale per l’Italia” proposto dall’imprenditore lombardo nel settembre dello scorso anno e svanito nella giostra dei colloqui bilaterali che ha segnato la stagione della pandemia e dell’emergenza materie prime. Ora si chiede un cambio di passo. L’idea è che la nuova legislatura possa ripartire da qui, chiamando tutte le parti a sedersi insieme. La priorità assoluta, assicura Bonomi, è fermare i prezzi dell’energia. «Se l’Europa non fa l’Europa – spiega – allora tocca all’Italia». Servono 40-50 miliardi, calcola il rappresentante degli imprenditori, che «si possono trovare nei mille e rotti miliardi di spesa pubblica». In alternativa, «uno scostamento di bilancio potrebbe dimostrarsi inevitabile».
Non è stata una presidenza agevole, quella di Bonomi. È decollata in pieno Covid, poi si è trovata a gestire l’inflazione e adesso c’è la guerra con la minaccia nucleare. Confindustria prevede ora un 2023 piatto e una bolletta energetica per le imprese in aumento di 110 miliardi. Parla di emergenza nazionale. Così il numero uno di Viale dell’Astronomia evita ogni giudizio preventivo sul governo, invita «a fare in fretta» e a cercare di lavorare tutti insieme. Oggi illustrerà le sue ricette agli imprenditori di Torino e Ivrea. E domani volerà a Bruxelles per dire all’Europa che la mancanza di solidarietà mina l’esistenza stessa dell’Unione.
Sgombriamo il campo, presidente. C’è mai stata possibilità che lei facesse il ministro nel governo di destra?
«Ma no… Lo hanno chiesto a Giorgia Meloni in un’intervista. Era la domanda di un giornalista. Tutto lì».
La maggioranza, per quanto solida e ampia, cerca ministri tecnici. Meglio loro o i politici?
La maggioranza, per quanto solida e ampia, cerca ministri tecnici. Meglio loro o i politici?
«Il nuovo governo dovrà prendere decisioni importanti a partire dal giorno uno. Servono persone competenti, il che non esclude affatto i politici. Non c’è alcuna diffidenza nei confronti dei partiti, ma i ministri dovranno conoscere bene la macchina pubblica e i dossier. L’emergenza attuale non consente di perder tempo. Tecnici o politici vanno bene, purché sappiano cosa fare».
A proposito. Come è stata governata, l’Italia, in questi due anni e mezzo?
«Dobbiamo ripensare a dove partivamo. Il presidente Draghi è arrivato per gestire il piano vaccinale e implementare il Pnrr da mandare in Europa, due obiettivi affrontati in modo positivo. Ha chiamato il generale Figliuolo che ha operato efficacemente. E con il Pnrr ha creato una solida visione per il Paese. Poi ha presentato i progetti che poteva, governando la pandemia, la guerra, l’emergenza energetica. È uno scenario che richiede continuità, a cominciare dalla piena adesione all’Ue e alla Nato».
Cosa si attende dal governo nei primi cento giorni?
«Un intervento sull’energia, anzitutto. È una questione complessa perché scontiamo decenni di errori e scelte sbagliate. Non ci si salva con la bacchetta magica».
E come?
«L’Europa non sta dimostrando la stessa condivisione di intenti della crisi pandemica. Sono otto mesi che Draghi cerca di cucire a Bruxelles una opzione coordinata. Ma per veti nazionali, l’Europa solidale dell’energia non è ancora nata. Nell’attesa, il governo Draghi ha adottato una serie di provvedimenti nazionali di emergenza e sfruttato le maggiori entrate fiscali dovute al rimbalzo economico. Ora il rimbalzo è finito. L’economia rallenta. Il prossimo governo, se non potrà contare sulla solidarietà europea per frenare la bolletta energetica, e non avendo entrate fiscali in crescita, dovrà ricorrere ad altre risorse».
Siamo arrivati allo scostamento inevitabile?
«La risposta europea dovrebbe essere il tetto al prezzo del gas e un Next Generation Eu per l’energia come si è deciso per il Covid. Senza, l’Italia sarà a un bivio: salvare industria e famiglie per salvare il Paese oppure finire in una profonda crisi sociale. Se l’Europa non fa il suo dovere – e Draghi ci ha provato, ma ognuno pensa per sé – non resta troppa scelta. Un sistema di imprese trasformatrici come il nostro, senza nucleare e carbone, deve essere difeso. In questo contesto, lo scostamento finalizzato al solo contenimento dell’emergenza energia diventerebbe inevitabile per sopravvivere».
Col debito che abbiamo è un costo aggiunto a un altro costo. I mercati potrebbero prenderla male.
«Nel caso, si dovrebbe partire da un punto fermo. Il governo non dovrebbe annunciare unilateralmente altro debito, dovrebbe presentare in Europa e ai mercati la decisione dicendo “non siamo noi che vogliamo fare debito, è l’Europa che non fa l’Europa, perché se ogni membro fa a modo suo si rompe il mercato unico”. Non si può condividere tutti la scelta politica delle sanzioni alla Russia, ma non i loro effetti».
Una fonte di alternativa di cassa sono gli extraprofitti. Favorevole o contrario?
«Confindustria è stata la prima a condannare la speculazione sui mercati dell’energia: bisognava intervenire sul mercato Ttf di Amsterdam. In Italia l’emergenza prezzi non è dovuta solo alla guerra, ma a decenni di errori che nessuno ammette, a scelte scellerate sulla dipendenza dal gas russo e sulle infrastrutture. È da un anno che ho evidenziato il problema, cinque mesi prima della guerra. Ci hanno accusato di essere gufi e pessimisti. Non è così, ovviamente: noi leggiamo i mercati. Per questo abbiamo invitato a bloccare i presupposti della speculazione».
La risposta sono stati proprio gli extraprofitti.
«Sono favorevole al principio della solidarietà, ma qui c’è stato un doppio errore. La base normativa dell’imposta è sbagliata, l’imponibile presunto non si calcola sulle dichiarazioni periodiche Iva. Infatti, il gettito non è arrivato e sentiremo parlare dei ricorsi per anni. Inoltre, la tassa è stata estesa a imprese energetiche che non operano su acquisti e import di gas. Di qui i contenziosi e il basso incasso pubblico. Sarebbe stato più facile applicare le addizionali Ires, solo nei settori necessari. Non è successo».
C’è parte dell’industria continua a crescere e a esportare. Non sarebbe il caso di rinunciare a qualcosa per aiutare il lavoro?
«Nei primi due trimestri è andata così, poi la crescita dell’export si è fermata. E comunque le imprese la loro parte l’hanno fatta. L’inflazione italiana al netto dell’energia è più bassa di quella europea. Perché le imprese nella filiera hanno assorbito parte dell’aumento dei prezzi comprimendo i margini, senza trasferirli sui prezzi finali. È dallo scorso anno che chiediamo interventi strutturali per recuperare competitività e potere di acquisto per i redditi più bassi. Bastava tagliare subito il cuneo fiscale».
Lo hanno fatto.
«Di pochissimo e non subito. Dicevano che non c’erano le risorse. Poi sono spuntati 60 miliardi per le emergenze, ma si è arrivati in ritardo. Le imprese perdono competitività, stanno ripensando gli investimenti. Se il Paese si ferma, impiegherà anni a ripartire. Il taglio del cuneo fiscale andava assunto quando c’erano le risorse per finanziarlo, ed era l’unico modo per mettere subito soldi in tasca ai lavoratori a più basso reddito».
Ha definito la flat tax “immaginifica” per ragioni di copertura. Che intervento auspica sul Fisco?
«Il nuovo governo non eredita una legge delega di riforma fiscale, è stata affossata prima del voto. Dunque, ha ampio spazio per delineare un disegno organico del fisco come leva di competitività e inclusione sociale e non solo finalizzato al gettito. Non servono interventi-bonus sull’Irpef. Siamo stati i primi a proporre un’Ires che premi le imprese che reinvestono gli utili e che veda l’aliquota invece salire quanto più gli utili vengono ridistribuiti».
Può servire un Patto sociale in stile Ciampi per affrontare la crisi?
«Il patto di Ciampi era per la moderazione salariale, adesso il problema è l’opposto: l’inflazione deriva dalle materie prome e mangia in termini reali le retribuzioni. È essenziale lo spirito giusto che porti tutti a sedersi intorno a un tavolo per trovare le migliori soluzioni. Per Confindustria non è un problema, abbiamo parlato di un Patto per l’Italia lo scorso anno, ma c’è chi si è chiamato fuori».
Ce l’ha con la Cgil?
«Non faccio polemiche. Basta vedere nel tempo quali parti sociali hanno detto che preferivano parlare solo con il governo. Non mi pare ci siano stati risultati positivi».
Dunque, la vostra proposta “per l’Italia” resta in piedi?
«Assolutamente sì. A condizione però che ci si sieda insieme. Convocare le parti una alla volta non affronta i problemi. Alla famosa “Sala Verde” bisogna andarci tutti sapendo che ognuno dovrà lasciare qualcosa sul tavolo, non solo chiedere. Gli accordi si fanno così. Sul cuneo fiscale, all’inizio ci hanno attaccato. Ora sono tutti d’accordo. Se è vero, facciamo l’intesa e stanziamo le risorse».
Di nuovo. Dove le prendiamo?
«Abbiamo mille miliardi e oltre di spesa pubblica. Riconfigurare il 4-5% del totale si può fare e si deve. Perché non si parla più di spending review? Se si vuole, i fondi si trovano».
Magari fermando il reddito di cittadinanza e i prepensionamenti?
«Sono favorevole a uno strumento per la lotta alla povertà, indipendentemente dal nome. Così com’è, tuttavia, non funziona. C’è disparità nella difesa dei poveri, ne intercetta più alcuni (nel Sud) che altri (nel Nord). È stato un fallimento inserire nel reddito le politiche attive del lavoro che sono tutt’altra cosa. Non hanno mai funzionato. Il risultato è che oggi bisogna trovare un posto di lavoro ai navigator nell’amministrazione».
Termosifoni spenti e autunno caldo?
«Temo di sì. Purtroppo. Occorre la serietà e la responsabilità di tutti. Di chi ha vinto e chi no. Dei corpi intermedi. Se qualcuno pensa di utilizzare la crisi speculando su questo momento, dovrà sentirsi dire “basta!”. Ci sono fasce troppo ampie di popolazione che soffrono e attendono una risposta da tutti. Sono preoccupato più ora che all’inizio della pandemia, è un momento molto delicato per il paese e per le industrie. Senza industria non c’è l’Italia. Se chiudiamo migliaia di imprese, vengono meno centinaia di migliaia di posti di lavoro».
Quanto costa mettere in sicurezza l’economia e il lavoro?
«La stima è 40-50 miliardi a condizioni attuali per il 2023».
Esiste una questione Nord per l’economia?
«Esiste una questione industriale del paese. Sono appena stato in Sicilia. I problemi sono gli stessi per tutti. Il costo per energia e la burocrazia pesano a Torino come in Calabria. Le infrastrutture, poche o tante, frenano a Milano come e Cagliari. C’è chi vuole palleggiare le questioni, ma non è così. La politica deve dare una risposta alle questioni nell’interesse del paese perché poi i suoi errori li pagano imprese e famiglie».
È preoccupato per la lentezza della realizzazione del Pnrr?
«La Nadef attesta che nel 2021 e 2022 è stato speso solo il 43% delle somme previste. È evidente che c’è un problema ad avviare bene cantieri e opere, oltre ai progetti avanzati da parti territoriali della Pubblica amministrazione che tradizionalmente soffrono di gap tecnici. Il nuovo governo deve accelerare l’esecuzione del Pnrr. I poteri di vigilanza e di intervento li ha».
Come si battono il lavoro nero, l’abusivato e gli stage eterni su cui cresce florida la precarietà?
«Sappiamo dove si concentra lo sfruttamento del lavoro, in che aree, zone e settori. Ma non si fa niente perché i partiti non vogliono pagare un prezzo di consenso nei loro collegi. Confindustria ha firmato a 58 contratti nazionali di lavoro, dove tutti hanno un salario tabellare superiore al salario minimo di cui si parla. È una questione che noi già sosteniamo, però il governo è necessario che agisca con una legge sulla rappresentatività di chi firma i contratti, favorendo la contrattazione nei settori che ne sono esclusi».
L’Europa non fa l’Europa, diceva. La innervosisce Scholz che fa il tedesco e sovvenziona le imprese nazionali?
«Mi inquieta quello che sta succedendo. Questa settimana vado a Bruxelles per incontrare i deputati europei e i colleghi imprenditori di Business Europe che, nei giorni scorsi, hanno tutti insieme, compresi i colleghi tedeschi, messo in guardia i governi sul tema dell’emergenza industriale. Le vie nazionali minano il senso stesso di Europa. Tornano ad aggravare la divergenza di competitività tra imprese e anche tra salari. Se ognuno va per la propria strada poi si alimenta lo scontento verso l’Unione. È quello in cui spera Putin».
Gran finale. I primi due anni della sua presidenza, fra pandemia e gas, sono stati in salita e tempestosi. È un motivo per considerare un nuovo mandato?
«Non si è eletti a vita alla guida di Confindustria. Il mandato del Presidente è solo di quattro anni non rinnovabili; quindi, tra meno di due anni terminerà il mio incarico. Nel frattempo, c’è molto da fare, dal polo petrolchimico di Priolo all’Ilva, dal lavoro al fisco. Siamo pronti a misurarci con persone competenti e autorevoli. Tecnici o politici, non fa differenza».