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15 Marzo 2023Arti Il Saggiatore pubblica «Si può solo dire nulla»: quarant’anni di profezie, provocazioni, anatemi di un maestro
Un volume raccoglie le sue interviste. E prende forma di burrascosa messa in scena
di Pietrangelo Buttafuoco
Bene è quel che finisce bene. All’s well, per dirla con Shakespeare. E figurarsi quanto ne viene di bene arrivando a Bene.
Eccolo il dire del significante finalmente libero da ogni significato: Si può solo dire nulla. Un manufatto di oltre 1.700 pagine, il definitivo prontuario delle interviste di Carmelo Bene — che è il vertice culturale italiano del XX secolo — in un volume edito da il Saggiatore a cura di Luca Buoncristiano e Federico Primosig intriso di magnificenza postuma. Un librone che come I Ching, come il Canzoniere di Hafez, e come lo Zarathustra si può aprire a caso e trovarvi di volta in volta, sfogliandolo, il sé che manca, l’irrapresentabile.
Ognuno cerca quel che non ha, ciascuno è ciò che non è e la mancanza di Dio è «un grande e stupendo funerale». L’irrapresentabile è l’indicibile e se l’Italia del suo tempo lo contiene — e il mondo di elevata cultura, da Parigi a Mosca, lo sostiene — Carmelo che nasce enfant terrible e muore enfant terrible oggi non avrebbe diritto di stare nella scena pubblica. Non avrebbe — con rispetto parlando — l’audience di un Lino Guanciale, nessuna professoressa oserebbe ammirarlo e un’Anna Foglietta si guarderebbe dal recitare con un ceffo così smisuratamente sessista, dunque antifemminista, un tipaccio disgustato dall’impegno, dalla dialettica del materialismo e dalla contemporaneità.
Un suo solo urto — «bisogna essere contemporanei a tutti i secoli» come intima ai cronisti — già lo candida alla mannaia della imperante cancel culture.
E l’uomo è, infatti, un malinteso. L’incomprensione è il suo pane quotidiano: «In democrazia il popolo è preso a calci dal popolo per conto del popolo».
Così parla Carmelo ai disarmanti collaboratori delle cronache di spettacolo — molti dei quali reclutati dagli uffici stampa degli enti teatrali e musicali — ed è tutto un manicomiale resoconto dall’universo carmelitano.
Alcuni s’accostano al maestro — o al mito — come a una bestia rara, come a chissà quale sregolato, mentre le navigate volpi di redazione che sanno andare a tenzone lo incendiano vieppiù di libertinaggio e decadenza generando così questo straordinario documento dove — più che leggere — è un godimento immergersi.
Ognuno è ciascuno e nella folla c’è la somma delle solitudini. Parla ancora Carmelo, sciorina l’ad libitum di partiture «con tutto l’amor fati della bronchite, della polmonite, del senza voce, senza Sana Gola» e nel sommarsi di servizi, interviste, colloqui e corpo a corpo che generano il libro di Buoncristiano e Primosig, prende la forma di una burrascosa messa in scena.
Monumentale
Oltre 1.700 pagine intrise di magnificenza postuma:
da aprire a caso e trovarvi ogni volta il sé che manca
Nel solco dell’abbagliante puntata di «Mixer Cultura» di Giovanni Minoli con Franco Bagnasco su Rai2, con Carmelo Bene è sempre — come da canone collaudato poi al Costanzo Show — un uno contro tutti. Ed è un rivendicare, il suo, oltre il «concerto dello sconcerto». L’essersi sempre battuto contro il giornalismo «in quanto informazione, essendo l’informazione inquinamento e minimizzazione di una più vasta cultura» lo destina alla non-storia. Così parla e non c’è da comprenderlo bensì — è la sempre valida regola con cui ci si regola con lui — c’è da dargliela sempre per intesa: «Io sono già dimenticato», confessa a Giancarlo Dotto, «meglio ancora ignorato, in vita. Mi hanno promesso a Otranto funerali da vivo. Non c’è bisogno di consegnare un cadavere per meritare la dimenticanza». Così si fa con lui che non copia la realtà ma sa sempre come penetrare il mistero. Lo spiega bene a Dotto, che è il suo alter ego, e lo svela al meglio — fuor di metafora calcistica — a Giampiero Mughini quando poi con lo sport capovolge i codici del significante: «Se uno vuole vedere un balletto lo trova in un incontro di Cassius Clay, non va alla Scala».
Il poeta giammai recita, piuttosto canta la dicibilità che resta invisibile. E la sua densa produzione teorica — generosamente elargita nel flusso delle interviste — lo conferma lirico nel suo essere inaudito. È Carmelo Bene ma è come se i Dino Campana — o gli Hölderlin, ma anche i Leopardi — avessero potuto beneficiare di un minimo tecnico per essere illuminati, amplificati e registrati. E raccontati nel disincanto del disbrigo promozionale di spettacoli, eventi e — da postumi — collezionati. L’epica di Carmelo Bene — e l’archivio giornalistico lo conferma — coincide con la sua stagione di Direttore della Sezione Teatro della Biennale di Venezia. Tutto un tramestio di idee, progetti, visioni e architetture che risulta oggi chimerico senza più lui, senza uno come lui, senza più il suo dire niente, il suo sontuoso teatro senza spettacolo.
Quel che più si ammira in teatro — si sa — è il lampadario. Con attori al più in prossimità con Bertold Brecht, tutti simil Roberto Benigni e non — ahinoi — dei Gianni Santuccio, ci si accomoda in sala e col naso in su s’arpiona l’unico effetto speciale.
«Tempo due anni e nessuno più andrà a teatro» dice Bene a Marco Palladini in un’intervista a «Paese Sera». Corre l’anno 1988 e così, a maggior ragione, senza più lui in questa vita che — a suo dire — è «forse il più grande attore dai Greci in poi», il teatro di rappresentazione e spettacolo è tutto un buio da ferire a colpi di candele. Solo con chi s’è estromesso dall’ordinario per essere straordinario, soltanto con chi ben oltre il corpo, ben oltre la scena — in nuda voce — con chi ben Bene che sia è puro genio, il teatro è un esistere senza esistenza.
Parigi vale Cesena quando è in scena, un 110 e lode all’ombra della Tour Eiffel lo lascia indifferente — «eccettuati alcuni consensi di certi personaggi che si chiamano Deleuze, Lacan, Foucault, Klossowski, Mandiargues» — e figurarsi quanto può impressionarlo ricevere le grandi firme in camerino se altra pratica non conosce che l’autoinganno, l’incommentabile, l’intoccabile, «l’eterno una volta per tutte».
L’esistere della tragedia greca, l’esistere di Madonna Folla alla Lectura Dantis dalla Torre degli Asinelli, l’esistere senza esistenza de L’italiana in Algeri, quel «nella testa ho un campanel» di Gioachino Rossini che è vetta, inarrivabile cima di quel gaudio amaro che all’amor somiglia solo con lui diventa «possibilità di nominazione di presunte cose che stanno al di fuori del che le dice».
Così parla Carmelo a Osvaldo Guerrieri in un colloquio pubblicato su «La Stampa» del 23 maggio 2000 presentando ’l mal de’ fiori, il poema con cui Bene capovolge Baudelaire. E davvero solo lui il cui tavolo da lavoro — disseminato dai volumi di Antonin Artaud — è una scultura di Ceroli, sa trarre l’inconoscibile, quella pulsione sorgiva del sentire che ravviva il logos. La sua affinità elettiva è Giorgio Colli — il filosofo cui ripugna il logos di mere meningi — e il Carmelo Bene ritrovato tra i ritagli delle interviste è quello che conclama la più difficile delle verità: «Auguriamoci una vita di sensazioni più che di pensieri».
Bene, annotato nei taccuini, è quel che torna di Bene.