Per apprezzare i quadri di Federico Barocci non si deve avere fretta, perché lui non l’ebbe mai quando li dipinse. Era noto per la sua lentezza e per i prezzi esorbitanti rispetto ai parametri del mercato di inizio Seicento (ad esempio, per una pala d’altare Caravaggio chiedeva mediamente 300 scudi, quando Barocci non si muoveva per meno di mille).
Artista introverso, malinconico, affetto da iperopia, era nato a Urbino nel 1533 e qui morì nel 1612, ultima gloria locale dopo Bramante e Raffaello. Sconosciuto ai più, questo strepitoso artista, che traghettò il Rinascimento di Correggio e Tiziano nel Barocco di Rubens, viene finalmente celebrato da un’importantissima monografica (oltre 80 opere, tra dipinti e disegni, provenienti da prestigiosi musei) aperta fino al 6 ottobre proprio nella sua Urbino, alla Galleria Nazionale delle Marche. Curata da Luigi Gallo e da Anna Maria Ambrosini Massari, la mostra racconta l’artista, la sua città e l’emozione della pittura moderna.
È dal 1913 infatti (quando si inaugurò la GNDM sotto la direzione del giovane Lionello Venturi) che studiosi e appassionati attendono questa mostra e l’occasione – imperdibile per scoprire una nuova concezione della luce – illustra l’ambiente artistico tra Pesaro e Urbino alla fine del ducato di Montefeltro, destinato a confluire nello Stato Pontificio con la morte di Francesco Maria II delle Rovere nel 1631.
Amico e mecenate di Barocci, l’ultimo duca di Urbino si rivolgeva soltanto a lui per consigli in campo artistico: commissioni, disposizioni degli arredi, artisti da chiamare a palazzo, tutto veniva filtrato dai suggerimenti del Barocci, che tuttavia non fu mai pittore di corte. Piuttosto era Francesco Maria II a preoccuparsi per lui, a fargli visita a casa, a mettergli a disposizione alcune stanze nel perimetro del palazzo come si fa con uno di famiglia e Barocci lo ricambiò con una fedeltà assoluta; lasciò al duca il compito di trattare le richieste di quadri da parte delle principali corti d’Europa e inserì quasi sempre sullo sfondo delle sue storie sacre lo scorcio del palazzo di Urbino con le due inconfondibili torri, quasi fosse un marchio di fabbrica.
Considerato l’artista più cristallino della Riforma cattolica, Barocci ambientava a lume notturno la maggior parte delle sue opere, pure divenne l’anti Caravaggio per eccellenza: le sue ombre sfumate hanno i toni del grigio e del violetto, quanto quelle del Merisi sono nere e taglienti; gli occhi dei suoi personaggi riverberano luce e sorridono, quanto quelli del Merisi assorbono tristi la notte; la grazia dell’uno si oppone al vigore dell’altro; la speranza al posto dell’angoscia. Barocci non ebbe vita facile, ma sublimò tutto nell’arte.
A metà Cinquecento si era recato a Roma, invitato da Pio IV ad affrescare alcuni ambienti del Palazzo Apostolico (1560 – 1563). Qui il suo talento aveva suscitato l’invidia dei colleghi che per toglierlo di mezzo gli avvelenarono l’insalata. Barocci non morì, tornò a Urbino, ma ci mise quattro anni prima di riprendere a dipingere. La sua salute era ormai compromessa, non la sua vena poetica. I ritmi di lavoro rallentarono, ma dal suo studio dove disegnava (si conta un corpus di oltre duemila fogli) e incideva (per proteggere con le stampe il copyright delle sue opere) uscirono capolavori commoventi, quasi tutti presenti in mostra.
Allestiti in otto sezioni secondo otto nuclei tematici (l’unico soggetto pagano è La fuga di Enea da Troia realizzato per Monsignore Giuliano della Rovere, cugino del duca Francesco Maria II), i dipinti del Barocci riflettono la sua personalissima devozione. Confratello dei frati di Sant’Antonio Abate (presso il cui convento in Urbino affittava uno stanzone per alloggiare le grandi tele in preparazione), il pittore contemplava i misteri della fede che andava illustrando accanto a semplici dettagli quotidiani come gli zoccoli di frate Leone, il falco di San Francesco, le piume sull’elmo di San Sebastiano, il nastro azzurro del cappello di paglia della Madonna. Non si vedono facilmente al buio e sembrano inseriti per piacere soprattutto all’occhio di Dio.
Usando toni di cipria, velature di lacche, lumeggiare inquieto, pennellate emotive Barocci traduceva materia in sentimento creando l’effetto di una luce spirituale che brilla in superficie come un gioiello, attraverso volti, mani, drappeggi. Nei suoi quadri il cielo scende sulla terra e un giorno il miracolo accadde veramente davanti a La Visitazione della Vergine a santa Elisabetta licenziata nel 1586 per la cappella Pizzamiglio della nuova chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma. Per tre giorni ci fu una processione continua di persone giunte a vederla; popolani, artisti, curiosi. Filippo Neri, fondatore degli Oratoriani, era solito sistemare difronte al quadro una piccola sedia e fissare l’immagine fino a cadere in un’estasi dolcissima. Lo tramandano i biografi sia del santo che dell’artista. Barocci aveva oltrepassato i limiti della professione per entrare nell’immortalità.
Federico Barocci Urbino. L’emozione della pittura moderna
Urbino, Galleria
Nazionale delle Marche
Fino al 6 ottobre
Catalogo Electa,
pagg. 312, € 49