Antiche fiabe francesi di Sophie Ségur pubblicato da Elliot Edizioni
22 Dicembre 2022Nomadi – Io voglio vivere
22 Dicembre 2022di Mauro Covacich
Caro investitore della mia compagna, mi permetto di darti del tu perché in questi giorni sei stato una presenza così costante nei miei pensieri che mi sembra di conoscerti bene. Questa è anche la ragione per la quale mi rivolgo a te con il caro. Certo, usare il gentile, o l’egregio, sarebbe stato impossibile (anche se magari nella tua vita privata tu sei gentile e forse sei pure egregio nella tua professione), ma il caro non è una scelta di ripiego: se ti ho parlato nella mia testa per tutto questo tempo, è segno che il tuo destino non può essermi indifferente, anzi, oserei dire che ha finito per starmi a cuore.
Quella sera, quando ha squillato il telefono, ero disteso sul divano a guardare la tv e avevo deciso di non andare a rispondere. Il cellulare era in carica in un’altra stanza e l’indolenza stava prevalendo sulla curiosità. Poi, anche considerando che raramente ricevo telefonate alle dieci di sera, ha vinto la voglia di sapere chi mi chiamava. Non ero preoccupato, dopo il teatro Susanna sarebbe andata a mangiare con l’amica e sarebbe rientrata comunque a un’ora più tarda. Però, non so perché, all’ultimo squillo ho avuto un presentimento. Eppure di fronte a un numero che non conoscevo ho preferito non rispondere. A quel punto lo sconosciuto ha ritentato di nuovo, allora ho capito che dovevo, se posso dir così, accogliere il suo appello. A sorpresa, era la voce di Susanna. «Sono stata coinvolta in un incidente, sto bene, però sono lunga distesa… forse è meglio se vieni». Dopo un attimo, alla sua voce si era sostituita quella di una ragazza, testimone dell’incidente e proprietaria del telefono, che mi dava indicazioni per raggiungerle. E Susanna dov’era finita? Ecco, ora mi accorgo che ti sto parlando di Susanna, ma tu non sai che si chiama così, probabilmente non sai neanche che quella che hai lasciato a terra è una donna, tutto dev’essere accaduto così in fretta. Hai superato l’autobus fermo al semaforo, sei passato con il rosso e te la sei trovata davanti, lì nel buio, con il suo motorino, e non hai potuto fare altro che investirla. O per dirla più precisamente, con un verbo che tutti usano in senso figurato e che qui invece si può usare in senso proprio, l’hai asfaltata.
A giudicare dai resti del motorino chiunque penserebbe ora che la guidatrice non c’è più. Invece Susanna c’è ancora. Per non si sa bene quale imponderabile capriccio della sorte, Susanna c’è ancora, ma tu non lo sapresti se non te l’avessi detto io proprio ora, nella mia letterina di Natale. Mi sono chiesto un sacco di volte cos’hai visto tu dallo specchietto quando ti sei allontanato: se l’hai vista che si muoveva a terra reggendosi il braccio, oppure se l’hai vista già lunga distesa, come si è descritta nella nostra brevissima telefonata e come in effetti è apparsa a me quando sono arrivato, tre o quattro minuti dopo. Perché noi abitiamo proprio in quel quartiere, sai? Tu eri diretto chissà dove, lei invece era praticamente già a casa. Ancora trecento metri e avrebbe messo la catena al motorino e io avrei sentito i suoi passi sulle scale. Ma la vita va così, l’attimo prima stai pregustando il momento in cui ti toglierai le scarpe e ti accoccolerai sul divano, l’attimo dopo incontri uno che ti asfalta.
I serpentoni delle macchine in coda all’incrocio, i lampeggianti blu delle pattuglie della polizia municipale che rischiaravano il buio della notte, e in mezzo, giusto al centro, lei, lunga distesa, ancora con il casco addosso, accudita da un piccolo crocchio di umani, tra cui la ragazza che mi aveva telefonato tenendo l’apparecchio vicino alla guancia di Susanna: è una scena che avrai visto in chissà quanti film. Non mi dilungo sugli sguardi, sulle frasi patetiche che si dicono in quei momenti, non mi dilungo sul tremore, sono tutte cose che hai già appreso al cinema, o più probabilmente sulle piattaforme. Però ecco, devo dirti che fa uno strano effetto vedere la tua compagna che trema — intendo, che trema davvero — lunga distesa con gli occhi aperti, mentre il suo cervello sta tentando di riconnettersi con il mondo, le luci, le facce delle persone, il mio sorriso, il sorriso rassicurante che mi ero imposto di indossare con chissà quali effetti grotteschi, o comunque fuori controllo. Non mi dilungo neppure sui commenti degli astanti riguardo al tuo comportamento, sono cose che intuirai e credo ti lascerebbero abbastanza indifferente. Che non ti sei fermato l’ho saputo subito, ovviamente. Si sono affannati a dirmelo un po’ tutti, e poi i testimoni lo hanno ripetuto agli altri agenti via via che arrivavano dopo i primi, un totale di quattro pattuglie per una decina tra uomini e donne, i quali, chiedendomi le generalità ognuno per un proprio misterioso formulario, aggiungevano ogni volta che ti avrebbero preso di sicuro. Invece, come sai bene, e come forse avevi saggiamente calcolato — per consuetudine con l’andazzo nostrano — già quando hai tirato dritto, non ti hanno preso né ti prenderanno mai. Le telecamere dell’autobus hanno colto il tuo passaggio ma non la tua targa, quelle dei semafori semplicemente non c’erano. Ma tu di certo non hai potuto fare simili valutazioni, sei passato con il rosso — molto velocemente, dicono i testimoni — e ti sei trovato davanti un motorino che, guarda caso, passava con il verde. Lo hai asfaltato insieme alla sua guidatrice, hai accennato di accostare, hai guardato nello specchietto per un secondo, forse due, e sei ripartito. Nonostante il tuo mezzo sia molto robusto, hai lasciato sulla strada un passaruota e pezzi di fanale, prove che non sono servite a nulla e che fanno compagnia ai frammenti del motorino con cui ho riempito la macchina su ordine della polizia, per eventuali processi che non si terranno mai. Un agente più tardi ha anche detto di aver notato, raggiungendo il luogo dell’incidente, un suv fermo sul bordo strada e due ragazzi che controllavano la fiancata con le torce dei telefonini. Eri tu? Ricordo la rabbia con la quale ho ascoltato le parole dell’agente, così intempestivo: avesse parlato subito, avrebbero potuto organizzare dei blocchi, soprattutto avrei potuto correre a cercarti, perché nei primi momenti desideravo solo averti tra le mani, la solita pulsione vendicativa di cui per fortuna nei giorni mi sono liberato quasi del tutto.
Le prime trentasei ore se ne sono andate nella frenesia dei controlli al pronto soccorso e dell’intervento al braccio. Ricordo gli addetti dell’ambulanza, due uomini con le tute piene di catarifrangenti, uno che immobilizza Susanna con le mani sulle spalle, l’altro che le sfila piano il casco come se dovesse disinnescarla. Non c’erano vertebre rotte, non sarebbe rimasta inchiodata su un letto, nemmeno su una sedia a rotelle (ma tu questo non lo sapevi, te lo sto dicendo io ora). Eppure il gesto degli infermieri, quel disinnesco, quello sminamento, era stato in qualche modo premonitore delle continue esplosioni avvenute nei giorni seguenti. Susanna, nell’inedita versione di vittima della strada, passava da uno stato di profonda cupezza a improvvisi accessi di euforia, per poi piombare di nuovo nel pianto. Sono sciocchezze, certo, rispetto a ciò che poteva accadere.
In fondo se l’è cavata solo con una placca di titanio nel braccio, ma il cervello non smette di riportarla dentro l’ombra scura che per un istante l’ha catturata insieme alla tua macchina, l’ombra da cui non sa, nessuno sa, com’è riuscita a fuggire. Lei ora deve fare i conti con questo.
Io invece, digeriti gli affanni e le furie delle prime settimane, devo fare i conti con la curiosità. La curiosità per te. Hai avuto paura? Sei rimasto scioccato? Hai pensato che non valesse la pena rischiare una multa? Hai temuto di essere linciato? Cosa ti ha impedito di fermarti a soccorrerla? Ti fa impressione il sangue? Eri sotto l’effetto di sostanze? E più tardi, quando l’effetto è finito, sei tornato a vedere? E poi a casa, il giorno dopo, o quello dopo ancora, ti è capitato di pensare a lei? Una simile esperienza ti ha tolto il sonno oppure sei già riuscito a gettartela alle spalle? Ti tocca in qualche modo, da qualche parte, quel corpo lungo disteso che hai visto nello specchietto? Hai mai pensato per un momento di costituirti? E più in generale, ti senti mai in colpa per qualcosa? Provi mai pietà per qualcuno? O forse sei un uomo nuovo o una donna nuova?
È questo che mi ritrovo a pensare quando mi aggiro per casa di notte. Ecco, sì, tu sei la novità. In mezzo alle migliaia di giovani che fanno volontariato e si battono per il futuro del pianeta e affollano le associazioni umanitarie e rischiano la pelle per i diritti civili e vivono la responsabilità di un passaggio di testimone con le generazioni che li precedono, sta crescendo anche un’altra umanità. In mezzo a noi, stanno crescendo anche quelli come te. Io vi vedo, ormai siete in tanti. Capita sempre più spesso di sentire di ragazzi che se ne vanno dopo avere causato un incidente, l’omissione di soccorso sta quasi diventando una strategia acquisita nei nuovi costumi, una specie di schivata, di elusione, non ancora lecita, ma già tacitamente ammissibile tra le tecniche di sopravvivenza nella cosiddetta giungla della strada.
Ma forse non sei così giovane come ti immagino, forse quei due ragazzi sorpresi dall’agente non c’entravano niente con Susanna, e tu sei un nuovo trentenne o un nuovo quarantenne, scolpito comunque nella tua novità di oltreumano a suon di selfie e altri integratori per il narcisismo, il cui sviluppo ipertrofico sembra ormai la vostra unica ragione di vita. Una proliferante genia di monadi che vedono il mondo solo come una superficie in cui specchiarsi, e anche quando si accorgono della sua bellezza, lo inquadrano sempre in secondo piano, seminascosto alle loro spalle, dietro l’immagine infinitamente ripetuta del loro autoritratto. Tu sei una monade senza porte né finestre come quelle immaginate da Leibnitz, te lo ricordi? Magari l’hai studiato. Il più grosso errore sarebbe presupporre la tua ignoranza. Il tuo comportamento non richiede che tu sia ignorante. Voi che crescete in mezzo a noi come una novità assoluta siete molto spesso bene istruiti, magari anche laureati, venite da genitori che vi portano in palmo di mano come gemme uniche e irripetibili, ex bambini super intelligenti, poi adolescenti turbati dal proprio genio, infine giovani adulti dotati di un io smisurato, che tuttavia non smetterà di crescere. Quell’io ti fa pensare a te, solo a te, non c’è spazio per altro. È possibile che nella tua cameretta tu ti stia struggendo per il trauma che hai subito. Niente di più facile che tu sia indignato, ferito per quello che ti è successo, un sabato sera rovinato da un maledetto inconveniente. Ma forse mi sbaglio. Cosa ti ha fatto diventare l’uomo o la donna che sei? Come sei riuscito a ottenere questo atteggiamento nei confronti dei tuoi simili? È frutto di esercizio o ti viene naturale? Hai lavorato scientemente — una lotta quotidiana, come quella contro gli acidi grassi e i peli in eccesso — o ti sei ritrovato già dotato di questa tua impermeabilità? Mi piacerebbe ascoltarti. Forse mi basterebbe guardarti negli occhi, vedere se hai lo sguardo che riconosco in quelli come te, la stessa intenzione passante, la tendenza all’attraversamento dei corpi che incrociano per strada.
Vorrei sapere se mi sbaglio o se vi riconosco davvero. Vi immagino come degli infiltrati in mezzo alla gioventù che rinnova ancora, con ostinazione, un progetto comunitario. Mimetizzati perfettamente, quasi invisibili, proliferate. L’individuo, non è questo forse il vostro unico culto? Generatore di sempre nuovi diritti, così tanti diritti che vi hanno fatto perdere di vista i doveri, anche il più importante, quello su cui si regge la possibilità stessa della nostra convivenza, il dovere di essere umani. Senza questo dovere, anche il sentimento della simpatia ha finito per atrofizzarsi. O forse il contrario: l’indifferenza verso l’altro ha reso superfluo il mutuo soccorso. Dimmelo tu cos’è avvenuto prima. Dentro di te, senti l’ingiustizia di vivere in una comunità di persone reali, è così? Tutte queste persone a cui si deve un minimo di attenzione, persone che non appartengono agli amici e nemmeno ai follower, gente sconosciuta che affolla gli stessi incroci che frequenti tu e che, almeno per il momento, non puoi escludere dal tuo orizzonte con un clic.
Non cerco di redimerti, a me interessa solo capire. O forse già ti so, come nella poesia di Pasolini al giovane fascista, La nuova gioventù: «Io so bene che tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere/ sincero: ma anche se sei un morto, io ti parlerò». Non ti sto dando del fascista, sia chiaro, e neanche del morto, tu sei vivo, vivissimo, e vieni dopo il fascismo, tutt’al più prendi il meglio del suo insegnamento menefreghista. Chissà chi vincerà, se i ragazzi attardati sulle vecchie posizioni della solidarietà tra i viventi o l’avanguardia che tu e i tuoi simili rappresentate.
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