«Io ho una responsabilità e difendo gli interessi dell’Italia come ministro dell’Economia. Chiaro?». Con una delle sue risposte secche, diventate classiche soprattutto quando si parla di Superbonus, ieri il ministro dell’Economia ha provato nel primo pomeriggio a chiudere l’ennesimo braccio di ferro nel Governo sull’emendamento governativo con lo spalmacrediti in dieci anni, su cui poco prima il vicepremier e segretario di Forza Italia Antonio Tajani aveva espresso «qualche perplessità». Ma nel pomeriggio la polemica è montata ancora: «Anche io faccio gli interessi degli italiani – ha ribattuto il ministro degli Esteri all’ora di cena – Quella sul Superbonus è una proposta di Giorgetti e non del governo perché io non sono mai stato consultato».
Le tensioni nell’Esecutivo che sono compagne fedeli del continuo lavorio sui crediti edilizi hanno accompagnato per l’intera giornata i tecnici del Mef, nella costruzione dei correttivi governativi all’ultimo decreto anti-superbonus, arrivati a Palazzo Madama solo nella tarda serata di ieri: per le proposte di subemendamenti parlamentari ci sarà tempo fino a lunedì alle 18. La partita, quindi, si dovrebbe chiudere nel giorno del quarto compleanno del Superbonus, approvato dal Conte-2 con il decreto «Rilancio» del 13 maggio 2020. Ma il Pd parla di «maggioranza nel caos» e annuncia che chiederà al Governo di tornare in commissione e di rivedere il calendario dei lavori.
Il punto più delicato è ovviamente quello della retroattività. Retroattività limitata a quest’anno, per applicare il nuovo calendario lungo ai bonus collegati alle «spese sostenute a partire dal periodo di imposta in corso» come precisato nei giorni scorsi dallo stesso Giorgetti nel suo intervento in commissione Finanze al Senato, ma sufficiente a scatenare la rivolta di costruttori, imprese e banche titolari di nuovi crediti che si svaluterebbero di circa il 15% secondo le prime stime. E a intensificare la battaglia nel Governo per una nuova scelta impopolare a meno di un mese dalle Europee.
Il pacchetto su cui si è lavorato al ministero dell’Economia è ampio, e fra le altre cose tira il freno sulla possibilità di utilizzare i crediti in compensazione dei versamenti tributari, per ridurre il costo in termini di cassa ed evitare di mettere a rischio anche i conti previdenziali dopo aver travolto i saldi di finanza pubblica. Arriva poi il fondo per sostenere le Onlus, che non possono più accedere alle detrazioni diventate l’unica via per utilizzare lo sconto, e per le aree terremotate dall’Emilia-Romagna a Ischia, escluse dal sostegno originario.
Ma l’attenzione di politica e diretti interessati si è concentrata inevitabilmente sullo spalmacrediti, che allunga da quattro a dieci anni il tempo di utilizzo del bonus ridotto al 70% per le spese sostenute a partire da quest’anno. L’obiettivo portato avanti dal Mef è quello di tutelare il bilancio pubblico da nuovi colpi, rispetto ai quali non c’è rischio contenzioso né malumore pre-elettorale che tenga.
Anche perché in gioco c’è una parte degli spazi complicatissimi da trovare per la prossima manovra di bilancio, chiamata a replicare misure per circa 20 miliardi (al netto dei nuovi interventi) senza generare nuovo deficit aggiuntivo. Lo spalmacrediti serve a evitare di caricare su quel carro anche la correzione necessaria a riportare il disavanzo al 3,6% nel 2025 e al 2,9% nel 2026, come promesso dalla NaDef dello scorso anno. Per questo, ha calcolato il Mef, servono 700 milioni il prossimo anno e 1,7 in quello successivo, da ricavare alleggerendo l’utilizzo dei crediti d’imposta grazie al calendario lungo che ne sposta una grossa quota del costo negli anni successivi al 2027, quando il debito/Pil è previsto in discesa. Una differenza di questo tipo implica il coinvolgimento di circa 11,3 miliardi di crediti, e quindi oltre 16 miliardi di lavori con il bonus al 70% oggi e al 65% nel 2025.