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10 Luglio 2022di Marco Cicala
Fut-il brûler Céline? Tocca bruciare Céline? Ma sia mai. Non scottatelo nemmeno. Anzi diffondetelo, traducetelo, ristampatelo tutto. Inclusi gli abietti pamphlet antisemiti ufficialmente censurati da una vita eppure acquistabili on line con un clic per una ventina di euro. Insomma, una foglia di fico grossa quanto un palazzo.
Proibire la trilogia della vergogna (Bagatelles pour un massacre, 1937; L’École des cadavres, ’38; Les beaux draps, ’41) rischia oltretutto di rassodare un piagnisteo, uno degli innumerevoli miti fasulli propalati da Céline medesimo: quello di un uomo e di un autore ingiustamente perseguitati. Polemiche vecchie come il cucco. Hanno stufato. Tanto più adesso che a far notizia non sono i libri scomunicati del dottor Destouches, ma i suoi manoscritti ritrovati: il malloppone di inediti – un metro cubo di roba – riemersi dal nulla l’estate scorsa e dei quali l’editore Gallimard ha avviato la pubblicazione con grande solerzia commerciale, però scarso rigore filologico – eccepiscono gli intenditori.
A maggio è atterrato nelle librerie francesi Guerre, titolo inventato dai curatori per un testo semi-ultimato di 180 pagine che Céline – al secolo Louis-Ferdinand Destouches – scrisse nel 1934. Ossia due anni dopo Viaggio al termine della notte, travolgente romanzo d’esordio. Ma che cos’è Guerre, un’opera autonoma oppure una costola del Voyage, vuoi uno “spin-off” dei successivi Morte a credito o Casse-pipe? Gli esegeti si interrogano, gridando comunque al capolavoro. Accompagnato da una pregevole brochure (Les manuscrits retrouvés, Gallimard, 47 pagine, 8 euro) nonché, presso altro editore, da un lussuoso volume a tiratura limitata in cui se ne riproduce il manoscritto (Guerre, le manuscrit de Louis-Ferdinand Céline, Éditions des Saints Pères, 264 pagine, 160 euro), il libro ha venduto in poche settimane 140 mila copie. E i céliniani già pregustano l’uscita in autunno del più massiccio Londres, poi di altre pepite ancora.
Mattatoio osceno
Spaventoso, esilarante, osceno, a tratti irresistibile, Guerre è ambientato quasi tutto in un ospedale delle Fiandre durante il mattatoio del ’14-’18, tra quel che resta di fantaccini maciullati, impazziti o regrediti allo stato ferino, gente posseduta dal terrore della morte e dalle pulsioni di un sesso da monta. Rigorosamente brutto, sporco e cattivo, c’è parecchio sesso in Guerre. Gli uomini – che qui il dolore non affratella, ma rende più spietati e predaci – ne escono malissimo. Le donne – le infermiere – pure peggio: tutte salopes, perfide mignotte calcolatrici e perverse.
E voilà: eccovi di nuovo impiattato con dovizia di bile il pessimismo antropologico céliniano. La requisitoria del reduce contro la retorica patriottarda della Belle Époque, contro lo sfarfallante “Mondo di ieri” che ha spedito vagonate di gente al macello, contro l’establishment di borghesoni, generaloni, politicanti, affaristi, genitori (crudelissimi i passaggi in cui si malmena il filisteismo di papà e maman), letterati squisiti, filosofi con la fissa dell’ottimismo e del Progresso: tutti complici – nell’occhio paranoico-critico di Céline – di un’immensa congiura stragista, un trauma che mai si potrà suturare.
Ma guardatelo, il corazziere Destouches, posare in foto come quella sulla copertina di questo Venerdì: elmo, pennacchio, sguardo antipatico, baffetto acerbo. Nella fissità marziale, difficile stabilire se il giovane Louis vada fiero dell’uniforme o vi fiuti già la trappola.
Qual era stata però la vera guerra del soldato Céline? Andiamo a vedere. Nel 1914, a conflitto appena scoppiato, il futuro scrittore rimane gravemente ferito sul famigerato fronte di Ypres. Ferito al braccio, non al capo. Quella del colpo alla testa che avrebbe reso necessaria la trapanazione del cranio era una balla, una fra le tante autoprodotte che tempestarono la sua vita. Comunque la pallottola lo mise definitivamente fuori gioco. Ricoverato, Louis non riprenderà più a combattere, ma verrà medagliato come un eroe. E tuttavia le trincee sono un’esperienza da cui non si torna indietro neppure da vivi. Céline se ne porterà appresso le lesioni per sempre. Sotto forma di rabbia cosmica (l’incazzatura di chi si sente fregato dall’ipocrisia di un’intera civiltà), ma anche di sofferenza fisica: emicranie, fischi, stridori incessanti nel cervello che gli distrussero il sonno. “J’ai attrapé la guerre dans ma tête“, mi sono beccato la guerra nella testa, dice Ferdinand, il protagonista del romanzo ripescato. Torturato dal basso continuo degli acufeni, Céline trasformerà la propria impresa letteraria in un lunghissimo acufene. Tutto all’insegna dell’ossessione, dell’invettiva, del delirio apocalittico. È ciò che fa l’inconfondibile originalità della sua scrittura. Ma ne denuncia pure i limiti. Tra i quali, una certa monotonia di temi e registri, che specie negli ultimi testi tresca con la maniera, nonché una manifesta anchilosi nell’inventare personaggi. In fondo nei libri di Céline ce ne sono di tre tipi: Lui, quasi-Lui, più quelli che assomigliano maledettamente a entrambi.
Il nemico Marcel
Anche per questo può far sorridere che nel 2022, anno in cui si celebra il centenario della morte di Proust, rispunti la polverosa querelle su chi sia il vero Numero Uno del Novecento francese, se l’autore della Recherche o quello del Voyage. Un big match che non regge. Quasi che sul ring si affrontassero un peso massimo e un gran medio. Non bisogna essere dei proustiani integralisti per accorgersi che l’opera di Marcel sta a quella di Louis-Ferdinand come una metropoli a un quartierino. Specioso, inventato di sana pianta, il duello Proust vs. Céline ha però una sua storia e un artefice.
Scrittore, deputato, figura di spicco dell’Action française, la falange ultranazionalista che avrebbe incendiato la vita politica e culturale parigina per i primi quattro decenni del secolo scorso, Léon Daudet (1867-1942), era uomo influente e abile manovriero nei réseaux editoriali. Fu anche grazie ai suoi maneggi se, nel 1919, All’ombra delle fanciulle in fiore, secondo volume della Recherche proustiana, ottenne il premio Goncourt. Riconoscente, Marcel gli avrebbe dedicato il terzo tomo del ciclo, I Guermantes. Nel ’32 Daudet ci riprova sponsorizzando il suo nuovo protetto Céline, ma stavolta gli va male: Viaggio al termine della notte manca il Goncourt aggiudicandosi il meno prestigioso Prix Renaudot. Sempre meglio di niente.
“Proust, che sono stato tra i primi a celebrare” annoterà monsieur Léon, “è il Balzac della chiacchiera. Da lì una certa stanchezza della quale Céline libererà la sua generazione”. In seguito i rapporti tra Destouches e il suo santo patrono si sarebbero guastati, ma per poi riannodarsi all’uscita di Bagatelle per un massacro, le cui intemerate antisemite mandavano Daudet in solluchero.
Negli scritti céliniani gli scaracchi contro Proust si sprecano. Uno per tutti: “Se non fosse stato ebreo nessuno ne parlerebbe più! Rottinculo! Ossessionato dalle inculate, non scrive in francese ma in un franco-yiddish arzigogolato del tutto estraneo a ogni tradizione francese”. Poco prima di morire, però, le Docteur getterà la spugna, ammettendo in un’intervista: “Proust è l’ultimo, il grande scrittore della nostra generazione”. Amen.
Maledetto a chi?
Fin qui le diatribe d’antan. Oggi verrebbe invece da chiedersi perché su un autore “maledetto” come Céline (che in effetti del maudit non ebbe mai nulla: era un medico piccolo borghese igienista e salutista) sia sceso un velo di indulgenza perdonista unito a un unanimismo devozionale da messa cantata. Verrebbe da chiedersi perché sul razzista, l’omofobo, il misogino Destouches non sia calata, se non distrattamente, la scure vindice della cancel culture e della sempre occhiutissima critica woke. Qualcuno lo spiega suggerendo che la lotta all’antisemitismo non sarebbe più una causa trendy e l’ebreo una vittima ormai non tanto alla moda. Chissà. Di sicuro sulla nuova voga di uno scrittore che fino a non molti anni fa si attirava quantomeno i distinguo (un conto il panflettista, il collaborazionista, un altro il romanziere geniale) e le prese di distanza ideologiche, molto pesa il fatto che l’ira di Céline sembra sposarsi a meraviglia con alcune tra le passioni tristi, ma potenti, della contemporaneità: rancore, risentimento, culto del sospetto, collera antisistema, linguaggio dello sfogo e della stura, complottismo. Tutte cose delle quali Destouches fu innegabilmente un pioniere e che adesso gli valgono un robusto ritorno di audience in versione 2.0.
Sui social, nell’universo digitale di quella che chiamano “fasciosfera”, ma che forse sarebbe più esatto definire “rabbiosfera”, il politicamente scorrettissimo Céline spopola. E con i bizantinismi dell’ars riabilitandi eccolo sdognato, a seconda, come un simpatico anarchico borbottone, un pacifista incompreso, uno che aggrediva l’ebreo non “in sé”, ma solo in quanto metafora della disumanizzante modernità industriale, del capitalismo guerrafondaio, della grassa finanza cosmopolita.
Ciò detto, è vero: se si inchioda Céline ai libelli antisemiti e al ruolo svolto sotto l’occupazione nazista della Francia (ruolo che – ormai è dimostrato documenti alla mano – non fu defilato, come pretendono gli apologeti, ma quello di un delatore fatto e finito), si rischia di buttar via il bambino con l’acqua sporca, ricadendo così nella spirale delle messe all’indice, sport che è oggi tra i più praticati. Il problema è però che nel caso di Céline – fattispecie quasi unica in un panorama intellettuale pur così carico di colpe come quello del Novecento – scarcerare l’opera dall’uomo può rivelarsi fatica erculea, missione disperata. A riprova, basti ricordare la vicenda di Milton Hindus. Una storia che i céliniani conoscono benissimo ma che, in sintesi, vale la pena di ripercorrere.
L’amico americano
Siamo nel 1948. Hindus è un giovane professore americano di Letteratura. Insegna alla Brandeis University. Benché ebreo, è rimasto stregato dai romanzi di Céline. Perfino i pamphlet antisemiti gli sono piaciuti. Sa che, dopo essere fuggito in Germania al seguito dei gerarchi pétainisti in rotta come il Reich, Destouches è riparato in Danimarca, dove ha trascorso undici mesi al gabbio. Ora è fuori, ma in condizioni miserande. I francesi ne reclamano l’estradizione. Rischia la fucilazione. Hindus decide di aiutarlo. Per quello che considera un genio, raccoglie appelli, firme. I due avviano uno scambio epistolare tutto salamelecchi.
Americano, ebreo, e accademico: inguaiato com’è, Céline si stropiccia gli occhi. Hindus è l’angelo piovuto dal cielo che può smacchiarlo dalle accuse, salvargli la pellaccia. Decidono di vedersi. Dagli States, Milton si imbarca per l’Europa e raggiunge Destouches nell’esilio danese. Però l’incontro con l’idolo sarà catastrofico.
Céline ha 54 anni, ma già l’aspetto di un nonnetto orrendo. Gonfio di livore (“È imbottito di bugie come un foruncolo di pus”), non ascolta, parla solo lui, a manetta, con due bolle di saliva agli angoli della bocca. Parla quasi unicamente di guerra. Alterna la falsa modestia alla vanità, l’autocommiserazione all’improperio. Nessun pentimento. Incistato nella fase anale, “le parole merda, merdoso costituiscono il 40 per cento del suo linguaggio. Tutto quanto ha a che fare con la defecazione lo seduce” appunta Hindus. Lo scrittore lo sfruculia: “Voleva farmi dire che oggi, in Europa, i martiri, i perseguitati sono gli antisemiti”. Destouches sostiene di aver scelto i nazi come il male minore: “Il bolscevismo era la peste e il nazionalsocialismo il colera. Non c’è cura contro la peste. Mentre, con molti sforzi e fortuna, un giorno o l’altro si potrà guarire il colera”. Quindi passa a umiliare l’interlocutore: “Lei non sa niente. Ascolti e impari. Chi ha scritto libri? Lei o io? Sono un cervellone. Lei una testolina. Potrà capirmi fra trenta, quarant’anni. Nel frattempo chiuda il becco”. Hitler? “Un clown devastante”. Joyce? “Amava inculare le mosche”. Sartre, Camus, Henry Miller? “Pigmei moderni”. Nell’assurdità indubbiamente comica della situazione, Hindus è dapprima disorientato (“Non è un pazzo, ma mi rende folle come lui”), poi pian piano recupera, riacquista lucidità, amor proprio: Céline “in fondo non era mai stato capace di dipingere che un solo personaggio: il suo… Più lo ascoltavo e più ero colpito dalla sua monotonia. Batteva sempre sulla stessa miserabile nota… Avevo già avvertito la ristrettezza della sua ispirazione, ma pensavo che fosse compensata dalla profondità”. Si sarebbe ricreduto anche su questo, il buon Milton.
Una volta rientrato, un filo barcollante, in America, il professore ricaverà da quelle conversazioni un libro, The Crippled Giant (“Il gigante storpio”), che va preso con le pinze come qualsiasi altra testimonianza, ma ha un certo qual sapore di onestà. Non è un’abiura, una demolizione di Céline (“In un’epoca tanto sterile quanto la nostra, resta uno dei più grandi”), ma il resoconto di un’amarezza, di una delusione umana. Destouches la prenderà malissimo, minacciando processi per diffamazione, brigando affinché a Hindus venga tolta la cattedra.
Davanti al furore dell’eterno reduce, del sedicente perseguitato, l’americano commenterà: “Il dolore, anche il più acuto che si possa immaginare, non potrà mai giustificare che si faccia soffrire il prossimo. La cultura ebraica, cristiana e greca me lo insegnano”.
Sul Venerdì dell’8 luglio 2022