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4 Agosto 2024Centri storici e “attività culturali”
Si è fatto in precedenza riferimento all’art. 148 del d.lg. 112/98, norma di estrema rilevanza poiché dopo aver fornito una nozione unitaria dei beni culturali (incentrata sulla testimonianza avente valore di civiltà), delinea uno spettro assai ampio delle attività che rientrano fra le responsabilità dei poteri pubblici nella materia.
Alla tutela si affiancano la gestione e la valorizzazione, nella cui definizione assume centralità la finalizzazione alla fruizione collettiva dei beni culturali e ambientali. Inoltre i tipi di azione amministrativa previsti dal decreto legislativo non si limitano a quelle di tutela ed a quelle che hanno di mira la fruizione del bene culturale. Sia pure molto diverse per finalità e logiche di svolgimento, esse riguardano comunque una cosa che incarna un valore culturale. Ad esse l’art. 148 aggiunge le “attività culturali”, dirette a formare e diffondere espressioni dell’arte e della cultura, e la “promozione” diretta a suscitare e sostenere le suddette attività culturali. Quindi si affievolisce o sparisce del tutto il riferimento alla cosa materiale da tutelare o da valorizzare, ed entrano in gioco le attività più varie, anche se comunque distinte da quelle rientranti nella nozione di spettacolo delineata dal successivo articolo 156 del decreto.
Cosa esattamente siano le attività in questione è davvero arduo dire, sia per la oscura definizione sopra ricordata, sia perché anche le disposizioni connesse non danno alcuna indicazione positiva (cfr. specialmente l’art. 148, comma 1, lett. g); e l’art. 153). L’unica certezza è che si tratta di attività di carattere strumentale rispetto alle “espressioni della cultura e dell’arte”, non attività a valenza diretta ed autonoma [9].
Sulla base di tale premessa, parlando di centri storici occorre accennare alla questione relativa alle attività tradizionali, per lo più artigianali, che vengono viste come beni vitali per gli antichi centri urbani. Alcuni [10] hanno parlato addirittura di “beni culturali-attività”, con riferimento a quelle manifestazioni di vita “spirituale” prive di supporto materiale e che nonostante ciò sembrano elevarsi a grado di bene culturale, richiamando così la distinzione tra beni culturali-cosa e beni culturali-attività elaborata per la prima volta da Cassese [11].
Già in seno alla commissione Franceschini si diede risalto al fatto che sarebbe stato indispensabile salvaguardare le attività originariamente esercitate nel centro storico, per non snaturarne i luoghi, con attività ad essi incompatibili.
La questione si è posta con riguardo al tema della compatibilità della localizzazione, in contesti urbani di particolare interesse ed in rapporto alle tradizioni locali, delle attività commerciali e dei pubblici servizi. Si tratta in altre parole del fenomeno delle trasformazioni degli esercizi commerciali, avvenuto verso la prima metà degli anni ’80 in tutte le medie e grandi città italiane, in sede di scadenza dei contratti di locazione degli immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, quando i titolari di alcune attività, per lo più artigianali, sono stati costretti a rilasciare gli immobili locati per fare posto ad esercizi commerciali più frequentati e redditizi (fast-food, jeanserie, ecc.), ma che non avevano nulla a che fare con le caratteristiche sociali ed ambientali dei centri storici.
Il tentativo di impedire lo sfratto delle tradizionali “botteghe” dei centri storici è stato perseguito dalla P.A., nella figura dell’allora ministero dei Beni culturali, attraverso lo strumento della “dichiarazione di interesse storico” dell’immobile in cui era svolta l’attività.
A tal fine ci si è avvalsi della legge n. 1089/39, alla quale erano soggetti anche gli immobili che, pur non possedendo un intrinseco pregio storico o artistico, erano peraltro riconosciuti di particolare interesse “a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere”.
Peraltro la legittimità dei provvedimenti ministeriali di vincolo è stata impugnata dai proprietari degli immobili che hanno denunciato l’eccesso di potere in cui la P.A. sarebbe incorsa violando l’art. 2 della 1089/39 (oggi integralmente recepito dall’art.2, comma 1, lett. b, del T.U.) che consentirebbe di vincolare soltanto le cose di valore storico o artistico e non anche le attività, di qualunque natura, culturale o non, esse siano.
Tale vicenda si è conclusa con alcune pronunce della giurisprudenza, amministrativa prima e costituzionale poi, in base alle quali si è posto in chiaro che il sistema di tutela della legge n. 1089/39 attiene alle cose materiali e, quindi, non può essere oggetto di una trasposizione applicativa al diverso ambito di tutela delle attività culturali o di interesse culturale.
Questo vuol dire che la tutela delle attività dotate di rilevanza culturale ha rilievo giuridico, ma si deve attuare in una dimensione diversa da quella propria delle cose. In breve, occorre che al posto di un inefficace vincolo di continuazione dell’attività tradizionale, si operi con strumenti di sostegno che siano idonei a mantenere quell’ambiente culturale nel quale le attività culturalmente pregevoli possano conservarsi e riprodursi.
n questa prospettiva si collocano le innovazioni significative introdotte con il d.l. n. 833/86 parzialmente convertito nella legge 6 febbraio 1987 n. 15 (c.d.. “legge Mammì”), recante misure urgenti in materia di contratti di locazioni di immobili adibiti ad uso non abitativo [12].
L’art. 4 di tale legge affida ai comuni, al fine di tutelare le tradizioni e le aree di particolare interesse nel proprio territorio, il potere di negare le autorizzazioni commerciali per determinati prodotti, determinando le attività incompatibili con le esigenze di tutela sopra menzionate ed utilizzando a tal fine le disposizioni della legge n. 426/71 in materia di disciplina del commercio, che in tal modo vengono integrate.
Tale norma, peraltro, è stata da alcuni criticata per l’eccessiva discrezionalità [13] riconosciuta ai comuni a causa della mancata definizione dei parametri “culturali” idonei alla individuazione delle attività commerciali compatibili; altri ne hanno sottolineato la non irrazionalità, auspicandosi in ogni modo una legge di settore capace di connettere la tutela dei valori culturali con le esigenze urbanistiche e commerciali.
A seguito della entrata in vigore del d.lg. 31 marzo 1998, n. 114, concernente la riforma della disciplina relativa al settore del commercio a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59, la materia delle licenze commerciali è mutata radicalmente con la soppressione, fra l’altro, del tradizionale sistema delle 14 tabelle merceologiche, sostituite da due soli grandi settori, gli alimentari e i non alimentari.
In particolare, l’articolo 6 di questo decreto legislativo, nel disciplinare la programmazione della rete distributiva, affida alle regioni l’insediamento delle attività commerciali di vendita al dettaglio e individua, fra gli obiettivi che le stesse regioni dovranno perseguire, anche:
– la valorizzazione della funzione commerciale a fine della riqualificazione del tessuto urbano, in particolare per quanto riguarda i quartieri degradati al fine di ricostituire un ambiente idoneo allo sviluppo del commercio;
– la salvaguardia dei centri storici attraverso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche degli insediamenti e il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ed ambientale.
A loro volta, gli strumenti urbanistici comunali debbono fra l’altro individuare le aree da destinare agli insediamenti commerciali e i limiti ai quali detti insediamenti sono sottoposti in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali e ambientali, nonché dell’arredo urbano; analoghe limitazioni dovranno valere per le imprese commerciali nei centri storici e nelle località di particolare interesse artistico e naturale.
Ma anche in tal caso il legislatore non ha fatto alcun riferimento a quelli che dovrebbero essere i “criteri culturali” che l’amministrazione dovrebbe adottare nell’individuazione delle attività commerciali compatibili con il contesto storico-artistico dei centri antichi.
In ogni modo è significativo come l’autorizzazione commerciale possa essere condizionata non solo da bisogni principalmente economici di sviluppo, ma anche dalla compatibilità con le tradizioni del luogo; il che potrebbe portare alla conclusione che alla base delle norme fino ad ora richiamate vi sia l’intuizione che anche un’attività commerciale possa essere concepita come “bene culturale” da tutelare.
- continua