La realtà prese una piega diversa dalle nobili – ancorché, secondo alcuni, teoricamente sbagliate – intenzioni di principio. L’area delle imprese pubbliche si estese enormemente, spesso non per consapevoli disegni industriali ma per favorire una gestione politica, partitica, correntizia, dei posti di lavoro, supremo strumento di conquista del consenso elettorale. Si giunse fino all’aberrazione del “panettone di Stato”: l’acquisizione fra il 1968 e il 1970 del controllo di Motta e Alemagna, al tempo celebri produttori di panettoni, da parte di una società del gruppo IRI, il campione italiano dello “Stato imprenditore”. Era difficile, per usare un eufemismo, intravedere obiettivi strategici d’interesse pubblico nella produzione di panettoni.
Iniziò a diffondersi, dapprima nella professione economica poi nel dibattito politico, una convinzione che era puro buon senso: un impiegato pubblico chiuso nella sua stanza ministeriale, ma anche un ministro, non può capirne di aziende, di mercati, di tecnologie più di un imprenditore o di un manager che girano il mondo e sondano continuamente il mondo degli affari e le sue tendenze. Un intervento pubblico nel sistema delle imprese poteva dunque giustificarsi solo se orizzontale, cioè indirizzato a incentivare o disincentivare caratteri comuni all’intero sistema, non già a scegliere un settore o un impresa per la loro presunta strategicità.
L’ondata di privatizzazioni sopraggiunta negli anni Novanta fu originata dalla necessità, da un lato, di reperire risorse per arginare la crescita del debito pubblico e, dall’altro, di adeguare il sistema italiano alle direttive europee. Ma fu anche avvalorata dal mutare dell’orientamento culturale e politico sottostante. La giungla delle principali imprese pubbliche fu disboscata. Un libro recente di Pietro Modiano e Marco Onado (Illusioni perdute, il Mulino) ripercorre quella stagione e mostra come (uso parole mie) la commistione di obiettivi di finanza pubblica, osservanza di trattati internazionali, adesione al nuovo mainstream di pensiero economico finì col produrre una gran confusione, da cui scaturirono disastri come la vendita di Telecom Italia, le cui conseguenza ancora il Paese sta pagando e da cui soltanto ora l’azienda sta uscendo.
Lo zelo eccessivo è dannoso sempre. Le vicende ultradecennali della politica industriale italiana ne sono un esempio. L’economia mista di mezzo secolo fa era inefficiente e perpetuava nel sistema economico italiano i caratteri ostili al libero mercato ereditati dal passato. Il passaggio repentino a un regime di politica economica in cui di politica industriale, orizzontale o verticale che fosse, si andavano perdendo le tracce è stato un errore altrettanto grave. Sta di fatto che la politica industriale è tornata in questi ultimi anni al centro dell’interesse dei Paesi avanzati, anche di quelli di più solida tradizione liberale. Gli Stati Uniti sono come sempre all’avanguardia. In quel Paese considerazioni di carattere militare e di strategia nelle relazioni internazionali sono sempre molto presenti. L’attività crescente della Cina sullo scacchiere internazionale, soprattutto dopo che la Russia si è infilata nella sanguinosa avventura dell’aggressione all’Ucraina, acuisce le preoccupazioni del governo americano anche per gli approvvigionamenti di semiconduttori. Questi sono essenziali per la difesa e per l’intelligenza artificiale e provengono quasi interamente da Taiwan, sotto costante minaccia cinese. Ne sono discesi pesanti interventi di politica industriale volti a creare campioni nazionali in grado di produrre semiconduttori nella quantità necessaria. In Europa la politica industriale la fa prevalentemente la Commissione per tutti i Paesi aderenti all’Unione, in modo rigorosamente orizzontale; sta ora molto spingendo per incentivare l’uso di tecnologie avanzate nelle produzioni.
L’Italia non può restare indietro. Non vanno ripetuti gli errori dirigistici del lontano passato, ma neanche proseguito l’atteggiamento noncurante del passato più recente. Individuazione di settori strategici e attenzione alle imprese nazionali nelle politiche pubbliche non possono più essere tabù.