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Franco Camarlinghi
L’ingegno, che guaio è una commedia in versi, scritta ai primi dell’800 da Alessandro Gribojedov. Gli ammiratori della letteratura russa ne conoscono bene il testo, ma qui ne parliamo perché si tratta di un titolo che sembra fatto apposta per la commedia, ovvero la tragedia politica, che è andata in scena a Palazzo Madama, per porre fine al governo di Mario Draghi. Una platea di personaggi pubblici generalmente dediti alla mediocrità, salvo rarissime eccezioni, obtorto collo poteva sopportare una scelta imposta da Mattarella, ma in vista delle elezioni la competizione fra i modesti leader in campo in qualche modo doveva trovare la strada per non farsi soffocare da una primazia intellettuale e alla fine politica anche troppo evidente. Ora i nostri campioni di sopravvivenza annaspano. La situazione più difficile è quella della sinistra, o meglio del Pd che ne è la parte determinante. Il centrodestra può avere tutte le difficoltà che vogliamo, ma va di corsa verso quello che da tempo ambiva: votare. È Letta a trovarsi di fronte a un’impresa che più ardua non potrebbe apparire. Basta guardare la mappa dell’Italia, con la simulazione elettorale nei collegi uninominali, che accompagna l’articolo di Giorgio Bernardini di ieri sul Corriere Fiorentino . Una sorta di monocolore di centrodestra, con una rottura rilevante solo nell’area tosco-emiliana che potrebbe essere decisiva per dare qualche possibilità di impedire un risultato impietoso per i democratici.
La difesa dei collegi in Toscana e in Emilia-Romagna diventa quindi una questione nazionale. Letta ha un margine di vantaggio in Toscana, dove il tramonto dell’alleanza con il Marat di Volturara Appula non gli costerà più di tanto, anzi niente, vista l’inconsistenza elettorale precocemente raggiunta dai seguaci di Grillo. Però anche sulle rive dell’Arno bisognerà che il Letta nipote decida dove spostare un campo largo che rischia di diventare un modesto appezzamento. Si pone la questione del rapporto alternativo a quello con il fu transatlantico del populismo nostrano, cioè l’alleanza con il centro. Che esista uno spazio definibile come centro, contrario ai due populismi, al sovranismo, ai filoputinisti o quant’altro, non è negabile, ma in che modo possa rappresentarsi è tutt’altra cosa. Prendiamo ad esempio proprio la Toscana: i democratici fanno capire che sono pronti a fare alleanze con i diversi soggetti che, dopo lo scangeo della fiducia a Draghi, si faranno avanti per definire questa araba fenice detta centro, a cominciare, piaccia o no, da Matteo Renzi. Perché non è facile escludere il barone di Rignano nella regione che lo ha visto iniziare la sua avventura politica, soprattutto per il fatto che per molti (o alcuni, ma per i seggi uninominali hanno valore anche pochi) i ragionamenti politici di Renzi continuano ad avere valore. Il fatto è che, pur considerando che siamo ai primi passi di una campagna elettorale che dovrà combattere anche con il generale agosto, quello che si intuisce dagli accenni iniziali, per quanto riguarda il Pd, è una riduzione della proposta politica alla definizione in esclusiva per sé di una superiore categoria: la responsabilità. Da ciò verrebbe l’assunzione dell’eredità di Draghi, della sua agenda, come si dice: cosa apprezzabilissima purché si accompagnasse a un programma che andasse oltre, in grado di esprimere idee originali, in seguito anche alle esperienze compiute e chiuse, come quella con Giuseppi. Letta non può nascondersi che l’esito dell’assurda iniziativa di Conte richiede una riflessione epocale per il suo partito, che non potrà avere che poco tempo per trovare i punti necessari a comporre un quadro di alleanze completamente diverso da quello che il Pd aveva supposto fino a pochi giorni fa. Perché non cominciare con la Toscana, dove, anche in seguito ai risultati recenti delle amministrative, la sfida della destra sarà di particolare impegno, visto che anche se lentamente si è cominciato a rilevare il formarsi di una classe dirigente davvero competitiva, di cui precedentemente c’erano state poche tracce.