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10 Marzo 2024Antologia Paolo Di Stefano cura per il Saggiatore una raccolta di testi del grande filologo usciti sul «Corriere della Sera»
di Paolo Di Stefano
Maestro di studi, ironia e passione etica. Gli scritti giornalistici a 10 anni dalla morte
Cesare Segre è conosciuto come uno dei maggiori filologi, critici, semiologi e teorici della letteratura. È stato, negli studi letterari, un protagonista del secondo dopoguerra, rinnovatore dei metodi e nel contempo erede di grandi maestri. Meno si sa dell’impegno giornalistico, a cui Segre teneva molto, anche come commentatore ed editorialista politico-civile oltre che culturale. Lo sconfinato terreno di interesse dello studioso, che spaziava dalla Chanson de Roland a García Márquez, da Boccaccio a Beckett, sembrava non bastare all’intellettuale e all’uomo sensibile agli accadimenti del mondo, lettore sistematico dei quotidiani, pronto alla discussione con gli amici sull’attualità del giorno. Nonostante l’aspetto riservato se non distaccato, era l’opposto dell’accademico avulso dal contesto, pur considerando che quel contesto spesso non gli piaceva.
La sua curiosità delle opinioni e della realtà circostante è testimoniata — ma nel contempo, forse, anche favorita — dalla lunga collaborazione al «Corriere della Sera», iniziata nel febbraio 1988, su invito del direttore Ugo Stille e grazie alla mediazione dell’amico Corrado Stajano. L’impegno giornalistico sarebbe diventato per Segre un «secondo mestiere», che in oltre venticinque anni avrebbe prodotto 481 articoli tra recensioni, elzeviri saggistici, racconti non solo memoriali, interventi lunghi e brevi di carattere etico e politico-culturale.
Questo Diario civile propone una scelta di riflessioni che esula dal versante strettamente professionale. La successione cronologica valorizza la varietà e la ricchezza dell’impegno giornalistico, una sorta di «diario in pubblico»: negli ultimi suoi libri confluivano non a caso, oltre a contributi di teoria e critica letteraria, articoli su temi morali non solo sulla Shoah e l’ebraismo apparsi per il «Corriere», rinforzando l’idea di una necessaria e progressiva convivenza e convergenza dei due aspetti. È noto del resto quanto, negli ultimi anni, le istanze civili occupassero i pensieri di Segre anche in sintonia con una rinnovata idea di letteratura e di prospettiva critica. Basti ricordare che il Meridiano si chiude simbolicamente con un saggio su Etica e letteratura del 2003. Nel 2006, Segre polemizza con Mario A. Rigoni invocando la necessità, per gli scrittori, di «schierarsi dalla parte dell’umanità» in nome di un’«etica della convivenza umana».
L’impegno più esplicito da parte di Segre coincide con il primo governo Berlusconi, composto anche dalla Lega Nord di Bossi e, per la prima volta, da esponenti del Msi. Il 7 luglio 1994, due mesi dopo il varo di quell’esecutivo di destra, sul «Corriere» viene presentato il Manifesto democratico elaborato da Segre con Stajano e Raffaele Fiengo. L’appello contiene un forte richiamo ai valori dell’antifascismo, con un monito sul conflitto di interessi e sulla necessità di tenere separati il potere politico da quello giudiziario. Tutte tematiche destinate a rimanere vive fino a oggi. Il documento, accusato di eccessivo allarmismo pregiudiziale, intendeva coinvolgere liberi esponenti dell’economia, della finanza, dello spettacolo e della cultura, per creare una sorta di «forum» democratico permanente. Tuttavia, sui buoni propositi prevalsero le difficoltà organizzative, e Segre, ricordando quell’esperienza, qualche anno dopo avrebbe scritto con un velo di amara autoironia: «Così la mia stagione di politico militante al di sopra dei partiti è durata poche settimane».
Escluse le recensioni letterarie, i filoni perseguiti da Segre e rappresentati nel Diario civile sono essenzialmente cinque.
1. Le riflessioni sulla memoria del nazismo e del fascismo, sull’ebraismo e sulla Shoah, con accenni all’esperienza vissuta, sviluppati distesamente in alcuni racconti in parte confluiti nell’autobiografia Per curiosità (1999). Questa dolorosa sensibilità è suggerita dal ricordo dei familiari scomparsi nei lager nazisti e dell’autoreclusione in un seminario di Avigliana, in Val di Susa, cui il sedicenne Cesare, sotto falso nome, fu costretto durante la Repubblica Sociale. Erano argomenti su cui Segre veniva chiamato a esprimersi, spesso in prima pagina (specie sotto le due direzioni de Bortoli). Ma anche la cronaca del giorno suggeriva rapide incursioni in tematiche simili. Una parentesi a sé, per la durezza del tono, riguarda l’uscita, nel 1994, del libello antisemita di Léon Bloy Dagli Ebrei la salvezza. Polemica che comportò uno scambio senza complimenti con Roberto Calasso, direttore di Adelphi, al quale Segre rimproverò: «Hitler, dal profondo dell’inferno, manderà i suoi fax di ringraziamento».
Tra le sue riflessioni: gli abissi del ’900 , lo stato di salute della scuola e della lingua, la semiotica
2. L’impegno di Segre si estendeva anche ad aree contigue rispetto ai suoi più stretti interessi critico-letterari, traducendosi in affreschi di ampio respiro su questioni storiche che si riproponevano nel presente (i rapporti tra Cristianesimo e Islam o il senso originario del Giubileo, divenuto nel 2000 un indegno «carnevale mediatico»). In altri casi quelle stesse istanze contengono risvolti ironici o stroncatorî: memorabili gli elzeviri contro il decostruzionismo americano o contro le grottesche tendenze «new».
3. Le preoccupazioni sulla «società degli studi», sulle molteplici riforme scolastiche e universitarie (le «foghe innovatrici») producono numerose prese di posizione, senza sconti né alla destra né alla sinistra, sulle politiche ministeriali. Il rimprovero ricorrente è di voler mortificare il ruolo degli insegnanti e di ridurre l’istruzione a «gretta utilità» pratica ignorando la necessità primaria di coltivare lo spirito critico e il confronto democratico delle idee. Esemplari sono le lettere aperte rivolte da Segre a docenti e studenti, i suoi consigli pratici (validissimi tuttora) sulla scrittura, sui temi di maturità e sulle tesi.
4. Più vicini allo spirito sistematico e didascalico di Segre i non pochi articoli che riguardano i mutamenti linguistici, mai dissociati dall’attualità emergente e spiegati in veri e propri mini-trattati di linguistica storica oppure di sociolinguistica. Per esempio, i pezzi ampi sul controverso rapporto tra dialetto e lingua, sugli eccessi del neopurismo, in cui Segre mette in guardia verso atteggiamenti nostalgici o regressivi. Due puntate, sempre attuali, prendono di petto il linguaggio pubblico da «osteria» e il ritorno del turpiloquio in politica («già caro ai fascisti»).
5. Per il calore con cui Segre faceva valere la sua «militanza», sempre rimasta convinta, sul fronte della filologia e della semiotica (è sua, come noto, la coniazione dell’endiadi «semiotica filologica»), tra gli scritti civili si inseriscono anche quelli che rivendicano una posizione teorica in contrapposizione con altri punti di vista. Risalta con evidenza particolare, per esempio, l’elzeviro su Roland Barthes, che definisce una netta distanza «ideologica» della semiotica italiana rispetto a quella francese. Si capisce molto bene come gli «strumenti critici» per Segre non siano mai arnesi neutri. E su questa via non stupiscono i ripetuti elogi ai critici russi (Jakobson, Bachtin, Lotman), per tanti versi affini a una semiotica, quella italiana, non disancorata dalla storia e dalla linguistica. C’è poi la fedeltà alla filologia come abito mentale e si direbbe esistenziale. Ricordando l’amico pavese Cesare Bozzetti, Segre scriveva: «Chi è stato, già da giovane, tanto vicino alla morte fatica a nascondere le ferite. La filologia era per Bozzetti l’appello a una realtà diversa da quella, inquinata, in cui siamo immersi». Una sorta di autoritratto-confessione.
Ci sono, appunto, i ritratti in morte, da cui affiora una mappa delle affinità culturali e sentimentali. Da una parte i «maestri» Jakobson, Lotman, Lévi-Strauss, Contini, Dionisotti; dall’altra i compagni di strada (di una vita), Maria Corti, Dante Isella, d’Arco Silvio Avalle. Infine gli scrittori amati: Lalla Romano, Vincenzo Consolo, Luigi Meneghello… Sono spesso ritratti da vicino, dai quali non traspare mai l’ombra di una pur minima autorappresentazione. Nessun narcisismo, precisione, estrema chiarezza: nel rispetto del lettore, Segre non esita, se necessario, ad aprire parentesi esplicative.
Maestro di eleganza, di controllo, di attenuazione in cui si annida l’ironia, Segre si concede rare stilettate, come nel caso Bloy, quando la materia gli si presenta incandescente per le sue cupe risonanze. Più spesso Segre consegna il suo pensiero profondo a sintesi folgoranti collocate in chiusura dei suoi articoli. Come nel sigillo finale di una stroncatura, morbida nei toni ma non nella sostanza, della versione cinematografica de La tregua: «I sentimenti di Levi, al di là di qualche innocente fantasticheria, stavano su un altro livello e i suoi lampi di gaiezza erano solo negli occhi». La chiusa di un commento sul filonazismo di Mircea Eliade: «Nelle concezioni astratte non c’è tragedia; la tragedia sta nella storia». E il congedo di un articolo sulla scomparsa degli ebrei per assimilazione: «Un’assimilazione completa sarebbe possibile solo in un contesto che abbia abbandonato pregiudizi, odio per i diversi, prepotenza. Quest’epoca messianica non pare vicina. E gli ebrei continueranno ad interrogarsi sul loro essere, sperando che la risposta non gli venga data dagli altri, con la violenza». Una insolita luce di ottimismo utopista subito spenta dalla consapevolezza storica e dalla presenza di un fantasma che sempre ritorna.