l’analisi
di Massimiliano Panerari
Ceti medi in ritirata ovunque in Occidente. E non certo per scelta loro. Il dibattito avviato dall’editoriale del direttore Massimo Giannini sta evidenziando da vari punti di vista (e differenti approcci disciplinari) quella che è un’urgenza sociale – fino ad ora, va aggiunto, non adeguatamente compresa nella sua portata dalla sinistra, che continua a guardare alla questione con lenti non aggiornate (e vari pregiudizi irrisolti).
Da quando, in maniera rivoluzionaria, il filosofo John Locke teorizzò la nozione di un «governo di opinione» da contrapporre alle pretese assolutistiche delle monarchie – anticipando un tema poi perfezionato dall’Illuminismo – la storia dell’espansione delle classi medie si è indissolubilmente intrecciata con quella dei regimi liberali e, in seguito, democratici. Come ha affermato a più riprese l’economista liberal e premio Nobel Paul Krugman, i ceti medi costituiscono la spina dorsale delle democrazie liberalrappresentative, e la loro crisi – ed è già avvenuto tragicamente nel corso del Secolo breve (come ha ricordato qui Giovanni De Luna) – è quella degli stessi sistemi politici liberaldemocratici.
Oggi tale crisi assume giustappunto anche il volto dell’espansionismo imperialista delle autocrazie illiberali, dove – come in Cina – il modello politico è precisamente quello della promozione del benessere per una classe media economica in assenza di libertà e democrazia politica. Un progetto che ha sostanzialmente funzionato fino a poco tempo fa, ma che mostra più di uno scricchiolio a causa delle politiche “zero Covid” di Xi Jinping e della deglobalizzazione (esasperata dall’invasione putiniana dell’Ucraina), con l’effetto di seminare inquietudini anche in alcuni settori della popolazione favorevoli a quei regimi autocratici e dittatoriali.
La storia della modernità è quella di un driver che ha visto intrecciarsi Illuminismo, liberalismo, borghesia (ossia il ceto medio) e giornalismo (con la nascita di una sfera discorsiva pubblica). Di una concezione culturale – declinatasi molto operativamente nello sviluppo dell’economia e della scienze e della tecnica – basata sul progresso. E di una promessa – ecco il nodo fondamentale: sempre più disattesa all’indomani dei “Trenta gloriosi” tra 1945 e ’75 – fondata sull’idea dell’ampliamento progressivo e inarrestabile dei ceti medi in termini numerici e di possibilità e diritti. Una visione che ha pure finito (almeno in parte) per contribuire ad alimentare le aspettative illimitate circolanti sempre più irresistibilmente dagli anni Novanta in avanti, prima del brusco risveglio nella diminuzione di opportunità in ogni ambito. Del resto, la Terza via che ritorna oggetto di discussione (ed esecrazione) proprio in questi giorni, pur all’origine di pratiche poco commendevoli di alcuni suoi leader, possedeva nella sua elaborazione intellettuale l’ambizione, per un verso, di provare a modernizzare la sinistra e a sintonizzarla con la postmodernità (il vero “trauma” da cui non ha saputo riprendersi) e, per l’altro, quella di promuovere politiche economiche di allargamento dei ceti medi puntando sulla capacità espansiva di quella che allora si chiamava new economy.
Non è andata come negli auspici – di nuovo, anche per gli errori, le sottovalutazioni e gli abbagli dei capi di un centrosinistra che allora governava tutte le grandi nazioni (post)industriali occidentali -, e si è aperta via via una “questione sociale” che investe particolarmente i più giovani, come ha sottolineato in questo dibattito Stefano Lepri, e colpisce molto duramente i tanti non garantiti e senza voce di questa nostra età delle piattaforme. A cui la sinistra non sa dare voce, non sapendo – o non volendo – uscire dai suoi insediamenti sociali storici, e più “scontati” (come ribadiva sempre su queste colonne Giuseppe De Rita).
Un altro dei pilastri della modernità perduta ha coinciso, infatti, con la forza dei corpi intermedi – ed è in primo luogo grazie alle loro battaglie che le “classi subordinate” (come si sarebbe detto nel Novecento) sono riuscite a entrare nelle dinamiche della democrazia liberale da protagoniste. Dagli anni Ottanta, il neoliberismo ha sterilizzato il conflitto (quello regolamentato, si intende) e, all’opposto dei suoi annunci di promozione generalizzata di chance che avrebbero consentito praticamente a ogni individuo di “diventare ceto medio”, lo ha via via ridotto, assottigliato e spappolato, e deprivato di status. E ha generato oligarchie ristrettissime e divaricazioni sociali, contribuendo così a generare la sollevazione e l’insorgenza populista (da cui è stata messa in discussione anche quella competenza tecnica e professionale che è una delle “ragioni sociali” e identitarie delle classi medie).
Senza ceti medi e corpi intermedi la democrazia liberale non può esistere. E anche il Pd, avvolto in una discussione interna con alcuni tratti spiccatamente ombelicali e autoreferenziali, dovrebbe proprio ripartire da qui: sforzarsi (anche) di comprendere i problemi dei ceti medi per dare loro una rappresentanza competitiva con quella dispiegata dal destracentro. Ovvero, per usare delle parole d’antan, avrebbe bisogno di ripartire da un’alleanza tra gli eredi (profondamente cambiati, naturalmente, nel frattempo) del movimento operaio e della borghesia. Perché è il compromesso tra quei due soggetti sociali, come Robert Guédiguian fa dire a François Mitterrand nel suo film Le passeggiate al campo di Marte (2005), che ha creato i momenti più alti della civiltà europea moderna.