Fare la perestrojka evitando il collasso dell’Unione Sovietica. Riformare la Chiesa, anche energicamente, ma scongiurare la spaccatura, la polarizzazione, lo scisma. Recuperare quello che il cardinale Carlo Maria Martini descrisse come un ritardo di duecento anni (parlava della morale sessuale) senza perdere pezzi, o almeno senza perderne troppi. La sfida assunta da Jorge Mario Bergoglio è epocale. Il primo Papa gesuita della storia la porta avanti funambolicamente. Ha accelerato, a inizio pontificato, con gesti eclatanti e parole nuove, ha frenato quando ha percepito che non poteva strappare, e ora è tornato a premere sul pedale dell’acceleratore. Con scossoni che nella Curia romana e nella Chiesa mondiale sollevano malumori felpati e critiche aperte, accuse di autoritarismo e di arbitrarietà, ma che lui ritiene necessario assestare, anche in solitaria, per portare a compimento la riforma per la quale è stato eletto dieci anni fa.
Francesco ha compiuto 87 anni lo scorso 17 dicembre. È consapevole che il tempo stringe. Non esclude che un giorno potrebbe dimettersi seguendo l’esempio di Benedetto XVI — non delegherebbe mai alla Curia come fece Giovanni Paolo II — ma al momento non ci pensa neppure: «Chiedo al Signore di dire basta, a un certo punto, ma quando Lui vuole». Nell’ultimo anno gli acciacchi si sono fatti sentire: un ricovero prima di Pasqua per un affanno respiratorio, un’operazione al ventre a giugno, dopo quella al colon del 2021, da ultimo una bronchite che gli ha fatto saltare il viaggio a Dubai per il vertice internazionale sul clima. Cammina a fatica, si è ingrossato. Evoca lui stesso la morte, con sottotesti ironici. «Sono ancora vivo, sai?», risponde sorridente a chi gli domanda come va. Più che scaramanzia, è l’implicita risposta a chi è deluso. «Sono ancora vivo nonostante alcuni mi volessero morto», disse, più esplicitamente, ai gesuiti incontrati a Budapest: «So — spiegò nel colloquio pubblicato dalla Civiltà cattolica — che ci sono stati persino incontri tra prelati, i quali pensavano che il Papa fosse più grave di quel che veniva detto. Preparavano il conclave. Pazienza! Grazie a Dio, sto bene». Vuole farsi seppellire nella basilica di Santa Maria Maggiore, ha rivelato alla giornalista messicana Valentina Alazraki. Anche qui un sottotesto: il Vaticano lo ha governato per spirito di servizio ma non ci vuole rimanere per l’eternità. Per ora non rallenta, anzi. La riforma avviata a inizio pontificato, lungi dall’essere completa, si dimostra «insaziabile». Per realizzarla, ormai, ha una squadra di fedelissimi in Curia. Senza fretta, nel corso del pontificato ha realizzato uno spoils system — come ogni predecessore prima di lui — che ha portato al ricambio, alla scadenza del loro mandato, di tutti i vertici dei dicasteri. La scorsa estate ha nominato alla Dottrina della fede un teologo argentino a lui molto vicino, il cardinale Victor Manuel Fernandez. Sia gli amici che i nemici concordano nel ritenere che non lo avrebbe nominato quando era in vita Benedetto XVI: non perché il Papa emerito potesse mettere un veto sulle decisioni del Papa regnante, ma per una sorta di non scritta cortesia istituzionale.
Al cardinale maltese Mario Grech il Papa ha affidato la gestione del Sinodo. Di assemblea in assemblea, sono venuti al pettine tutti i nodi, dai divorziati risposati alle coppie gay, dal ruolo delle donne ai giovani che lasciano la Chiesa, dal calo di vocazioni ai “preti sposati”, dagli abusi sessuali all’evangelizzazione di un mondo ampiamente secolarizzato.
Il cardinale Grech ascolta, assembra, pungola e al contempo smussa gli angoli, tiene insieme progressisti e conservatori, occidentali e orientali, chierici e laici. Per Francesco è cruciale: è convinto che la Chiesa debba evolversi ma teme le spaccature. La tradizione, va ripetendo citando Gustav Mahler, «non è custodia delle ceneri, ma salvaguardia del fuoco». Ma sa che se facesse il passo più lungo della gamba un successore potrebbe tornare indietro, se invece un passo avanti, anche piccolo, è condiviso sinodalmente, sarà irreversibile. La perestrojka senza l’implosione dell’istituzione, il rinnovamento sostenibile.
Altro campo di battaglia in cui si è messo accanto un porporato fedelissimo è la liturgia. Il cardinale inglese Arthur Roche tiene botta da quando Jorge Mario Bergoglio ha ribaltato la decisione di Benedetto XVI di liberalizzare la “messa in latino”. Il Papa è convinto che dietro molte rivendicazioni dei tradizionalisti vi sia, in realtà, la contestazione del Concilio vaticano II, la grande assemblea dei vescovi di tutto il mondo che, tra il 1962 e il 1965. È un po’ il paradosso della tolleranza di Karl Popper applicato alla Chiesa: una società caratterizzata da tolleranza indiscriminata, diceva il filosofo di Vienna, è destinata a essere scalata dagli intolleranti che ha fatto entrare al suo interno e questi alla fine aboliranno la tolleranza.
L’arrivo delle tre suore
Una Chiesa conciliare, aperta a tutti, anche a chi contesta il Concilio, finirà per negare le sue premesse di apertura. C’è, dunque, una linea rossa da non superare che passa dal messale preconciliare. Da allora l’ondata di critiche che ha investito il Pontefice argentino si sono moltiplicate, talvolta con virulenza. Lui ha tirato dritto, e ride a una nota freddura che circola nelle sacre stanze: “La sai la differenza tra un liturgista e un terrorista? Con un terrorista ci puoi discutere”.
Il novero dei fedelissimi non è finito, così come non è esaurito il numero dei cantieri. C’è il cardinale Robert Francis Prevost che Francesco ha da poco messo alla guida del potente dicastero che sceglie i vescovi di tutto il mondo con un taglio, oggi, più pastorale che in passato. C’è il cardinale filippino Luis Antonio Tagle alla testa di quella che un tempo si chiamava Propaganda Fide e oggi è posta sotto la diretta supervisione del Papa nel mega dicastero per l’Evangelizzazione, urgenza prioritaria per la Chiesa di domani. C’è il cardinale statunitense Kevin Farrell al quale il Papa ha affidato il delicato incarico di obbligare i movimenti e le associazioni, da Comunione e liberazione ai Neocatecumenali, dagli scout ai focolarini a molti altri, a intraprendere una profonda revisione della propria governance per evitare rischi come il culto della personalità, gli abusi, le malversazioni.
C’è Maximino Caballero Ledo, un laico spagnolo che guida la Segreteria per l’Economia, il maxi ministero delle finanze incaricato di vigilare su appalti, investimenti, assunzioni, ponendo fine a un’epoca di clientelismi. C’è il cardinale gesuita Michael Czerny, che porta avanti il dicastero che si occupa di tutti i temi politici sui quali papa Francesco punta, dalle migrazioni al cambiamento climatico. C’è il team del dicastero per le Comunicazioni, il prefetto Paolo Ruffini, il direttore editoriale Andrea Tornielli, il portavoce Matteo Bruni e il direttore dell’Osservatore Romano Andrea Monda, che in questi anni ha messo a terra una complessa riforma dei media vaticani.
Un altro fedelissimo sin dai primi passi del pontificato, padre Antonio Spadaro, è giunto in Vaticano come sottosegretario alla Cultura dopo aver diretto per una dozzina d’anni la Civiltà cattolica, il quindicinale dei gesuiti che ha rappresentato in questi anni la voce ufficiosa del pontificato. C’è poi il cardinale polacco Konrad Krajewski, la mano caritatevole del Papa, noto alle cronache per aver riattivato la luce in un immobile occupato di Roma, lo Spin Time, o per aver portato aiuti alle transessuali del litorale romano rimasti senza clienti durante la pandemia.
Ma tutti i prefetti e i segretari dei diversi dicasteri della Santa Sede sono personalità scelte dal Papa, e lo stesso vale per il “municipio” del piccolo Stato pontificio, il Governatorato. Se il presidente è il cardinale Fernando Vergez Alzaga, a guidare la macchina è una donna: suor Raffaella Petrini. «La suora », la chiamano, semplicemente, oltre le mura leonine, senza bisogno di specificare di chi si sta parlando: figura sottile, un sorriso attraversato da un filo di ironia, discretissima ed efficientissima. In un mondo ancora ampiamente maschile, se non maschilista, questa religiosa romana delle francescane dell’eucaristia, laureata in Scienze politiche alla Luiss e specializzata con un master negli Stati Uniti, gestisce con mano ferma le molte incombenze della vita che si svolge oltre le mura Leonine, introiti e spese compresi.
Suor Petrini è anche, insieme a suor Yvonne Reungoat e alla laica Maria Zervino, una delle prime tre donne che, per volontà di Bergoglio, fanno parte del dicastero dei vescovi: tre donne che scelgono i pastori maschi delle diocesi di tutto il mondo. Una novità così inusuale che quando arrivarono, si racconta, ci si accorse che nel dicastero non esistevano neppure i bagni per le donne… forse per superare l’imbarazzo, dinanzi alle loro tre postazioni furono posti, a mo’ di omaggio da parte dei loro colleghi uomini, dei vasetti con un’orchidea.
Jorge Mario Bergoglio ha stravolto ritmi e consuetudini della Curia romana. L’ha svuotata, in una sorta di devolution ecclesiale, per frenare un certo interventismo censorio e lasciare più spazio alle Chiese locali. La Segreteria di Stato rimane un architrave del governo papale ma è stata ridimensionata. La guida il cardinale Pietro Parolin, abile diplomatico, personalità di spicco nel collegio cardinalizio, uomo prudente ma sempre leale con il Papa. È coadiuvato dal “ministro degli Esteri”, il sornione arcivescovo inglese Paul Richard Gallagher, e dal Sostituto agli affari generali, l’arcivescovo venezuelano Edgar Pena Parra, cinghia di trasmissione tra il Pontefice e il palazzo apostolico.
In parallelo è cresciuto il peso del Consiglio dei cardinali: questo organismo creato da Francesco a inizio pontificato è formato da nove porporati dei cinque continenti che lo coadiuva nella riforma dell’organigramma vaticano e «nel governo della Chiesa universale». Il “C9” è giustapposto, ma a volte sovrapposto, alla Curia. I suoi membri — oltre Parolin e Vergez Alzaga, i cardinali O’Malley (statunitense), Lacroix (canadese), Rocha (brasiliano), Ambongo (congolese), Gracias (indiano), Omella (spagnolo), Hollerich (lussemburghese) — sono più influenti di molti capi dicastero che vivono 365 giorni in Vaticano.
Il terremoto nella Curia romana
Ma oltre a riformarla e svuotarla, il Papa ha anche terremotato la Curia romana. Un sisma ininterrotto, fatto di scelte improvvise, cambi di programma, decisioni assunte senza passare dai canali istituzionali. «Francesco ha un programma chiaro in mente», dice un arcivescovo che lo conosce bene ma preferisce restare anonimo: «È il pastore che cerca una connessione immediata con il gregge. Si tratta di una riforma dall’alto che si congiunge con la spinta dal basso di tanti cattolici semplici che cercano una Chiesa credibile in cui riconoscersi. Questo, chiaramente, spiazza chi sta in mezzo: i sacerdoti, le conferenze episcopali, la Curia romana». Populismo ecclesiale? «In un certo senso sì», risponde Massimo Faggioli, professore di storia del cristianesimo all’università di Villanova, Pennsylvania, negli Stati Uniti. «Questo Papa che sul piano politico è stato chiaramente antipopulista, lo abbiamo visto con Trump, a livello ecclesiale ha la tendenza a saltare le mediazioni dei corpi intermedi. La Chiesa del popolo ha dentro di sé i rischi del populismo. Ma la Chiesa — prosegue il professor Faggioli — non può prescindere dai corpi intermedi: è un’idea che funziona bene dal punto di vista mediatico ma quando c’è bisogno di un battesimo o di un funerale dov’è che vai? Non è che vai dal popolo, vai dal prete! O quando la Chiesa affronta i grandi problemi della nostra epoca, come l’immigrazione, c’è la Caritas, c’è la Conferenza episcopale italiana, non c’è il popolo. L’appello al popolo di Dio ha i suoi lati positivi ma anche i suoi lati più problematici».
La schiera dei nemici
I nemici dentro casa non mancano. Sono tutti coloro che in questi anni si sono sentiti emarginati o umiliati. C’è la vecchia guardia wojtyliana e ratzingeriana. Ci sono gli
apparatcik ,
spesso italianissimi, nostalgici di un’epoca in cui il Vaticano era più influente sulla politica. Ci sono più prosaicamente i quadri e gli impiegati abituati a un’epoca più tranquilla e rigogliosa. C’è il generone romano aduso ad altri sfarzi e ad altre commesse. Ma ci sono anche teologi, canonisti, liturgisti che Bergoglio non ha mai troppo ascoltato, a volte sminuendoli con qualche battuta percepita come offensiva. Ci sono i diplomatici che preferirebbero una comunicazione più misurata, un miglior coordinamento tra le esternazioni papali e il complicato lavorio dietro le quinte.
«È uno stile di governo molto personale, dettato dalla mancanza di fiducia nei meccanismi e nei filtri di tipo istituzionale», afferma Massimo Faggioli. «Che però sono lì per un motivo: aiutano il papato a comunicare col mondo, proteggono l’autorità e la credibilità della parola del Papa. Quando questi filtri vengono sistematicamente saltati, quando la sua parola è inflazionata, a mio avviso si creano dei problemi».
Questione meno evidente, ma non secondaria, sono i tagli di bilancio. La Santa Sede vive un epocale calo delle donazioni che non dipende certo da Bergoglio. Nei paesi che più contribuiscono alle casse vaticane, Stati Uniti, Germania, Spagna, Italia, la Chiesa si restringe e invecchia. Lo scandalo degli abusi sessuali ha creato in non poche diocesi del mondo massicci problemi finanziari. E per il Vaticano, un piccolo Stato che non ha imposte né batte moneta, si prospetta nel lungo periodo una diminuzione degli introiti. Una dieta dimagrante è obbligatoria. E aggiunge malumore al malumore del sottobosco curiale. «La rabbia è diffusa», mormorano oltre il portone di bronzo. A volte si esprime apertamente, ma più spesso rimane sottotraccia, venendo in superficie tramite qualche blog, il boicottaggio passivo, maldicenze di corridoio. Esacerbate da tre paradossi che si annidano nello stile di governo di Bergoglio e che negli ultimi tempi si sono manifestati con particolare evidenza.
Un uomo solo al comando
Il primo paradosso è che la reciproca diffidenza iniziale tra il Papa outsider e la Curia romana prosegue anche ora che lo spoils system è completo. Sembra un dato strutturale del pontificato. Bergoglio continua a scavalcare i suoi collaboratori anche ora che li ha scelti lui. Non li consulta, prende iniziative che li prendono di sorpresa, cambia programma senza avvertirli. Allergico a ogni tutela, refrattario a delegare, il Papa gesuita impronta l’arte del governo a un suo discernimento personale. «Mi sembra un uomo solo al comando», commenta Massimo Faggioli. La corte — ed è il secondo paradosso — è stata sostituita da un’altra corte, meno formale. «La corte è la lebbra del papato», disse il Papa a Eugenio Scalfari in un’intervista di inizio pontificato. Ed è vero che dieci anni di cura Bergoglio hanno smantellato protocolli, abitudini e vizi cortigiani.
Ma è altrettanto vero che attorno a Casa Santa Marta gravitano amici, confidenti, persone che Francesco convoca per informarsi su cosa bolle in pentola, nelle sacre stanze e in giro per il mondo. Il cardinale Gerhard Ludwig Müller, ratzingeriano doc spodestato da Francesco, critica l’esistenza di un “cerchio magico”. Di certo Francesco «è informatissimo», confida un suo collaboratore che preferisce rimanere anonimo: «Non succede mai di riferirgli qualcosa che non sappia già». E governa grazie a una rete di contatti che gli permette di sfuggire al pericolo in cui cadde Benedetto XVI. Isolato (o autoisolato) dal mondo esterno, protetto dal muro eretto dai collaboratori più stretti, suscitò una frustrazione, in chi non riusciva a raggiungerlo, che sfociò in pubblico, in modo distorto, tramite i “vatileaks”. Non molto tempo dopo, il Papa tedesco si dimise.
Il terzo paradosso è che Francesco ha tratti di governo imperiosi. Il vescovo di Roma che ha decentrato il potere vaticano a volte accentra decisioni anche di gestione minuta. Il Papa che ha risuscitato la sinodalità ricorre volentieri al motu proprio. Una certa dose di autoritarismo, paradossalmente, gli serve per introdurre nel corpo della Chiesa maggiore democrazia. Quando anni fa Francesco chiese alla Conferenza episcopale italiana di eleggere il proprio presidente — quello italiano è l’unico episcopato il cui presidente, sinora, era nominato dal Papa, che è anche primate d’Italia — molti vescovi si ribellarono. Troppa democrazia! Con il Sinodo ha rivitalizzato uno strumento che permette all’opinione pubblica della Chiesa di esprimersi. Ma quando l’assemblea ha proposto di ammettere i preti sposati (“viri probati”) e le donne diacono in Amazzonia, Bergoglio ha congelato la decisione. Il Sinodo, ha detto, non è un parlamento. Aperture e chiusure, sinodo e motu proprio, democrazia e gerarchia. E’ il funambolico percorso della perestrojka vaticana. Che papa Francesco è sembrato volere accelerare con una serie di decisioni, prese direttamente da lui o a lui riconducibili, che nelle ultime settimane hanno suscitato critiche e doglianze.
La mano ferma con chi devia dal cammino
Francesco ha deciso di togliere l’esoso appartamento romano e il “piatto cardinalizio”, ossia la pensione vaticana, al cardinale statunitense Raymond Leo Burke. È da dieci anni che il porporato ultraconservatore, estimatore della messa in latino e di Donald Trump, critica qualsiasi apertura di Francesco. Da ultimo ha attaccato il sinodo, definendolo una “Babele sinodale”. Criticò, in realtà, anche Benedetto XVI, quando questi fece un’apertura, in verità piuttosto cervellotica, all’uso del condom nel caso che un prostituto, maschio, rischi di trasmettere l’Aids. Il cardinale Burke non andrà sotto un ponte: risiede buona parte dell’anno presso il santuario di Nostra Signora di Guadalupe in Wisconsin, una struttura che ha una fervida attività di fundraising. Ma la decisione del Papa ha sorpreso: perché sanzionarlo ora? Non è una misura troppo drastica? Non è il modo migliore di farne un martire?
«Nonostante il suo giuramento di fedeltà all’ufficio di San Pietro, ha continuato a usare i suoi privilegi vaticani e lo status di cardinale per attaccare e minare non solo gli insegnamenti del Papa ma anche il processo sinodale attualmente in corso, dipingendolo come una resa allo spirito del tempo», risponde Austen Ivereigh, biografo di papa Francesco. «C’è libertà di parola nella Chiesa e Francesco accoglie le critiche, ma la costante disobbedienza e la mancanza di disciplina di Burke erano incompatibili con il suo ruolo di cardinale. È stato un atto di giustizia togliergli lo stipendio e l’appartamento », prosegue Ivereig, che a febbraio prossimo pubblica il libro “First Belong to God: On Retreat with Pope Francis”, una raccolta di scritti poco noti di Bergoglio. «Francesco è stato sorprendentemente paziente con entrambi, ma il suo ufficio richiede che occasionalmente eserciti la disciplina per il bene dell’unità della Chiesa. Penso che la reazione della maggior parte delle persone sia stata: perché ci ha messo così tanto tempo?».
Il processo e la condanna di Becciu
La seconda decisione, non assunta dal Papa ma in qualche modo a lui riconducibile, è la condanna del cardinale Angelo Becciu nel processo vaticano sulla compravendita-truffa di un palazzo al centro di Londra. È stato Francesco che ha voluto che un processo si svolgesse, ed è stato lui a emendare le norme in modo che potesse essere processato anche un porporato. Il tribunale vaticano presieduto da Giuseppe Pignatone ha condannato in primo grado il cardinale e quasi tutti gli altri imputati per truffa e peculato. Becciu si dichiara innocente. Saranno i successivi gradi di giudizio a stabilire la verità giudiziaria. Il processo intanto ha squadernato un ambiente di opacità, incompetenze, decisioni arbitrarie, mancanza di rendicontazione e controlli, ragnatele di rapporti personali che hanno preso il sopravvento su quelli istituzionali. E che ha già convinto Bergoglio a trasferire i fondi che venivano gestiti dalla Segreteria di Stato sotto l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica. Le critiche, però, sono forti.
La vicenda «è stata ed è uno spartiacque dirimente perché denuda una modalità singolare dell’esercizio del potere da parte di papa Francesco», ha scritto Luis Badilla. Questo intellettuale cileno, medico e membro del governo di Salvador Allende, esule in Italia con la dittatura di Augusto Pinochet, da anni curava un sito internet, Il Sismografo, che era un punto di riferimento nell’informazione vaticana. Nato su suggerimento dell’allora portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, all’epoca in cui la Santa Sede, e in particolare Benedetto XVI, incappò in incidenti diplomatici che rivelavano una scarsa conoscenza delle dinamiche informative all’alba di internet — il discorso di Ratisbona, il vescovo lefebvriano negazionista della Shoah — questo sito, inizialmente una newsletter interna, si è poi sviluppato come un blog che monitorava, come un sismografo appunto, tutte le notizie online, buone e cattive, che riguardavano il Vaticano. Nel corso degli anni il sito è divenuto via via più critico nei confronti del Papa. Ora, cogliendo l’occasione della sentenza Becciu, il sito ha chiuso: «Dopo 17 anni di vita, seppure con formati e destinatari diversi, la mia vecchiaia, 78 anni, e le sue compagne, le malattie, mi esortano a fermarmi», ha scritto Badilla, affermando, come ultima chiosa critica, che in futuro l’esercizio del potere del Pontefice «non può più essere assoluto e per tutta la vita».
Lo storico Alberto Melloni, da parte sua, ha notato che nella nuova costituzione apostolica della Curia romana approvata da Francesco, il Papa è “chiamato a esercitare in forza del munus petrino poteri sovrani anche sullo Stato della Città del Vaticano”. «Quella che potrebbe sembrare una spiritualizzazione, coerente con l’azione riformatrice che segna il pontificato di Bergoglio, ha invece un risvolto opaco», scrive lo storico del cristianesimo in un articolo pubblicato sul Mulino: «Nemmeno i più tenaci difensori del potere temporale hanno mai sostenuto che esso sia stato conferito a Pietro omogeneo al primato e alla infallibilità perimetrati dal concilio Vaticano I. Nessuno è riuscito a capire chi sia stato il canonista spericolato che ha portato alla firma del papa, con una formula «che va oltre la figura stessa del papa-re, nella quale c’era almeno un trattino…».
La svolta sulle coppie omosessuali
Critiche di unilateralismo che si sono riproposte in una vicenda del tutto diversa, la benedizione delle coppie omosessuali. Il Papa ha proposto questa ipotesi al Sinodo fin dall’inizio del pontificato, ma ogni volta mancava il quorum. La questione divide in profondità. Prima di Natale, alla fine, Francesco ha controfirmato una dichiarazione del dicastero della Dottrina della fede, l’ex Santo Uffizio, che ammette la possibilità di benedire in chiesa una coppia di persone dello stesso sesso. La chiave di volta è stata chiarire il concetto di benedizione: non una benedizione liturgica, come avviene nel matrimonio, che legittimerebbe l’omosessualità — che per la Chiesa rimane peccato — ma una benedizione semplice, che non può essere sottoposta a «troppi prerequisiti di carattere morale, i quali, con la pretesa di un controllo, potrebbero porre in ombra la forza incondizionata dell’amore di Dio su cui si fonda il gesto della benedizione».
Il Papa ha deciso sovranamente. La sua decisione ha sollevato il plauso dei vescovi tedeschi, e di molti altri vescovi e cattolici in Europa e nelle Americhe, ma praticamente tutte le conferenze episcopali africane, salvo quella sudafricana e kenyota, hanno dichiarato che disapplicheranno il dispositivo vaticano. Per il cardinale Müller benedire una coppia gay è «blasfemia ». Sul tema dell’omosessualità il ventaglio di posizioni, all’interno della Chiesa, è molto ampio. E così come ci sono critiche da destra, non mancano quelle da sinistra. Suor Teresa Forcades, una religiosa catalana in prima linea per i diritti delle persone lgbtq+, sostiene la plausibilità del matrimonio gay. Il sacerdote statunitense Bryan Massingale pone in questione lo stesso catechismo: «Come puoi parlare di accoglienza e compassione condannando allo stesso tempo gli atti d’amore come peccato?». Luigi Sandri, che ha da poco pubblicato il libroDire oggi il Dio di Gesù (Paoline), mette in evidenza «la domanda decisiva, e cioè: cosa direbbe Gesù di fronte a una persona gay? Nei Vangeli Gesù non parla mai dei gay: e ce n’erano alla sua epoca… La Chiesa non è stata capace di tacere, imitando Gesù».
Jorge Mario Bergoglio vuole consolidare la sua riforma. Sente che il tempo stringe. Suscita speranze e apprensioni. Per i conservatori va troppo veloce, per i reazionari è un pericolo, per i progressisti i suoi passi avanti sono troppo timidi. È il destino di ogni riformista. I suoi detrattori dicono che i fedeli sono confusi. «Gesù era dirompente e imprevedibile anche agli occhi delle autorità religiose del suo tempo», commenta Austen Ivereigh. «Gesù è venuto a restaurare l’alleanza con Dio, per la quale ha dovuto sfidare e aggirare le élite sacerdotali del suo tempo perché erano diventate intermediari che bloccavano l’accesso dei comuni fedeli ai beni di Dio. Anche Francesco è venuto per restituire la Chiesa al popolo, ed è stato altrettanto dirompente per l’establishment clericale che soffriva di “mondanità spirituale”. Ma il punto della “rottura” è tornare all’essenza del Vangelo, per consentire alla Chiesa di evangelizzare il mondo contemporaneo, per consentire il Regno di Dio. Le sue riforme e i suoi insegnamenti sono stati trasformativi. Lungi dal lasciare i fedeli “sconcertati”, sono proprio i comuni fedeli di tutto il mondo che hanno saputo riconoscere nel Vangelo di Gesù Cristo secondo papa Francesco un insegnamento autentico e convincente che ci collega direttamente a Cristo in Galilea. L’assurdità secondo cui le persone sono “confuse” è un gioco di potere. Francesco può sfidarci, invitarci a una riflessione più profonda, ma non siamo confusi».
La riforma, per papa Bergoglio, non è un’opzione: come Michail Gorbacev imboccò la perestrojka perché l’Unione sovietica aveva finito per tradire le sue stesse premesse ideali, Francesco ritiene che la Chiesa debba ritrovare la fonte del messaggio evangelico. Per farlo, deve uscire da un atteggiamento di condanna aprioristica nei confronti della modernità, parlare all’uomo e alla donna di oggi, anche a chi è lontano dalla fede, tornando a incidere sulla storia anziché rinchiudersi nelle sagrestie, nelle battaglie di retroguardia, nella diffidenza nei confronti delle altre religioni. Meno ossessionata dalla morale sessuale, meno concentrata sui “valori non negoziabi-li”, più aperta alle ferite della storia e della società, dalle migrazioni alla povertà, dalle guerre alle diseguaglianze, per annunciare la Buona novella a un’umanità ancora in cerca di salvezza. Se non lo fa il rischio è che da Roma, il centro della cattolicità, promani in tutto il mondo una testimonianza antievangelica. Il Pontefice argentino tratta i fedeli da adulti, ritiene che la fede sia attuale anche nella libertà di coscienza: non vuole obbedienza ma adesione al Vangelo, convinto che il nemico più insidioso, oggi, sia l’indifferenza. Predica una fede che si fa ponte anziché muro, che punta sulla fratellanza e non sullo scontro di civiltà. Erratico nella tattica ma lucidissimo nella strategia, Francesco prepara il terreno al futuro della Chiesa. Con decisioni a tratti imperiose, e senza schivare la provocazione. Anzi, cercandola.
di Iacopo Scaramuzzi