Quindicesimo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo
17 Dicembre 2023Exportiamo la nostra piazza
17 Dicembre 2023
di Emanuele Trevi
Di sicuro, l’idea che nel 2023 si sarebbe inaugurata al Palazzo delle Esposizioni di Roma una mostra dedicata ai suoi disegni avrebbe a dir poco costernato Bobi Bazlen ancora di più — se è possibile — dell’edizione filologica dei suoi Scritti apparsa in forma definitiva da Adelphi nel 1984. Com’è risaputo, l’amico di Italo Svevo ed Eugenio Montale, nonché fondatore (con Luciano Foà) dell’Adelphi, non volle lasciarsi libri alle spalle, se non quelli che leggeva e faceva tradurre (o traduceva lui stesso) in italiano. Quando mai avrebbe potuto considerarsi un artista, da esibire addirittura sulle pareti di un Palazzo delle Esposizioni? Tanto più che non si trattava di un hobby, a meno di non voler considerare l’intera esistenza di questo inimitabile triestino (nato nel 1902) un sublime hobby taoista e dadaista.
I disegni a china e a matita e gli acquerelli selezionati per la mostra da Anna Foà e Marco Sodano, tutti di piccolo formato, risalgono al periodo 1944-1950, e furono stimolati da un grande psicanalista, Ernst Bernhard, tedesco trapiantato in via definitiva a Roma nel 1936. A Bernhard si deve la diffusione degli insegnamenti di Carl Gustav Jung in Italia, e questo va tenuto a mente guardando le opere grafiche di Bazlen, perché è al pensiero di Jung che risale quella formidabile tecnica di introspezione che si definisce «immaginazione attiva».
Semplificando al massimo una materia che, come si può facilmente intuire, è molto complessa, si tratta di dare all’inconscio una possibilità di esprimersi attraverso figure impregnate di significati altrimenti irraggiungibili. Mi sembra perfettamente ragionevole perseguire gli scopi dell’immaginazione attiva anche attraverso il linguaggio verbale: non mi sembrano molto lontani da questi disegni i frammenti superstiti dell’opera letteraria che Bazlen non portò mai a compimento, Il capitano di lungo corso. Ma mi sembra evidente che il disegno, come strumento, sia molto meno condizionato della scrittura, con tutti i suoi sedimenti culturali e sociali che giocoforza ostacolano il libero abbandono alle forze più oscure e profonde che abitano la nostra mente.
Farò l’esempio più ovvio. Molti dei disegni di Bazlen esposti in questa mostra sono chiaramente traduzioni grafiche di sogni, con tanto di data. Certo, possiamo appuntare un sogno appena fatto, producendo un testo: sicuramente è una scelta più naturale che quella di disegnarla, che implica il possesso di un certo grado, se non di talento, almeno di abitudine e conoscenza degli strumenti. Ma il linguaggio scritto è una potente macchina razionalizzatrice: il semplice aderire alle più elementari regole dell’ortografia e della sintassi è una mediazione potente e non trascurabile, quando si tratta di catturare contenuti inconsci. E lo stesso vale per il parlato, che senza dubbio è più spontaneo, ma meno di quello che crediamo. I disegni di Bazlen, invece, ci donano la profonda emozione delle cose impossibili: è come se quei rettangoli di cartoncino fossero altrettante finestre (o buchi della serratura) che ci permettono di spiare i sogni di un altro. Possiedono, dei sogni, quell’inconfondibile allearsi della più giocosa arbitrarietà e della più ferrea necessità, così divaricate e opposte nella veglia.
Lo stesso Jung impiegò moltissimo tempo a disegnare da capo a fondo le pagine del Libro rosso, la sua opera più segreta. Resterebbe da osservare che (a differenza di quelli di Jung!) i disegni di Bazlen sono anche straordinariamente belli. Certo, mancano di quell’assenza di finalità che giustamente associamo all’arte, ma il loro valore estetico mi sembra evidente, anche se è la conseguenza di ben altre intenzioni. Di una cosa possiamo essere certi: questa mostra rappresenta un tassello molto importante della leggenda di Bobi Bazlen.
Dopo averla vista, mi è venuta voglia di rileggere il bellissimo ritratto, intitolato semplicemente Bobi, che gli ha dedicato Roberto Calasso. Per Calasso — che da Bazlen ha imparato il mestiere e molto altro — Bobi era «quello che sapeva qualcosa di più». Molti l’hanno visto come un grande rinunciante, alla maniera dello scrivano Bartleby di Herman Melville, ma credo che ci si avvicini più al vero considerandolo una persona che, anziché rinunciare, guardava e andava oltre ogni convenzione. «Era inadatto a qualsiasi funzione», ricorda Calasso, «se non quella di capire e di essere». Il che coincide abbastanza esattamente con quello che gli antichi avrebbero definito un sapiente.
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