Muoiono troppi bambini e non solo a Gaza. Andrei a 9 anni, venuto dalla Moldavia, allontanato dalla madre girovaga e senza fissa dimora, morto solo perché nessuno si è accorto del suo disagio e della sofferenza nel sentirsi senza legami. Fuggito dalla casa famiglia, senza affetti, alla ricerca confusa di un altrove.
Finito in istituto già nel suo paese, la madre se l’era trascinato dietro in Italia, ma senza badare a lui. Un bambino quasi invisibile. Portato in una comunità vicino a Torino, Andrei è scappato anche da lì, troppo forte l’istinto infantile di cercare un altro luogo.
Seguiva i binari, forse pensando che l’avrebbero condotto in un posto migliore. Chissà cosa pensava quando il treno l’ha investito ed è morto così, solo e perduto. Viene in mente il libro di Gilbert Cesbron Cani perduti senza collare, sui ragazzi del Dopoguerra, una generazione senza adulti e allo sbando che dovette cercare di cavarsela da sé. La Moldavia è ancora così: una terra di confine tra Romania e Russia, vicinissima alla guerra in Ucraina, con un futuro incerto, che spera di proteggersi entrando nell’Unione europea pur se messa quotidianamente a repentaglio da una storia difficile e dai separatisti. Lì potrebbe scattare la prossima invasione e in tanti se ne vanno, come la madre di Andrei.
Sono numerosi i bambini soli e senza famiglia in quelle terre: nella vicina Romania un tempo erano noti i minori che vivevano nelle fognature di Bucarest. In Ucraina oggi ci chiediamo quanti sono i bambini rimasti soli e senza i genitori che sono stati uccisi dalla guerra. Non deve essere diverso per gli abitanti del Donbass e per le tante aree povere e isolate di quelle terre.
LA MORTE DI ALEX
Nella stessa settimana in cui Andrei perdeva la vita sulle rotaie, vicino a Roma è stato ucciso Alexandru Ivan, Alex per gli amici, rumeno di 14 anni, finito in mezzo a una lite di adulti per droga. Se l’erano portato dietro in quella che si è rivelata essere una resa dei conti, ma dove a rimanere ucciso è stato un quasi bambino. Giustamente La Stampa ha avvicinato le due storie, simili e diverse tra loro, titolando “La Suburra di Alex, il mondo di Andrei”.
Ci chiediamo se questo mondo sia accogliente per i bambini o se i più fragili rischino la vita molto più di quanto si pensi. Ovviamente la guerra è il carnefice più micidiale, come vediamo in Ucraina, a Gaza o nei kibbutz attaccati il 7 ottobre con le atrocità compiute anche contro bambini innocenti. Nei combattimenti di qualunque parte del mondo periscono i più fragili, gli anziani che non possono fuggire e i bambini che dipendono in tutto dagli altri. In alcuni casi, come in Africa, vediamo bambini costretti a combattere, magari sotto l’effetto di droghe.
Ma anche nei paesi dove la guerra non c’è la violenza diffusa e criminale può essere altrettanto micidiale. Pensiamo ai minori e adolescenti del Centro e Sudamerica arruolati nelle maras o rinchiusi senza processo in carceri di adulti dove vige la legge del più forte. Uccide anche la solitudine nei paesi ricchi, come è accaduto a Bronson, 2 anni, di Skegness nel Lincolnshire, trovato morto di fame e di sete in braccio al padre che era morto d’infarto. Nessuno se ne è accorto malgrado il pianto del bimbo.
E poi leggiamo di altri casi di bambini uccisi da chi li dovrebbe proteggere e nutrire, ostaggi di liti, di disagio mentale o della povertà. Sono fatti diversissimi ma ci pongono tutti la medesima domanda: è normale morire in questo modo? Essere uccisi da piccoli? Potremmo pensare che così va la vita, che non si può fare granché, che per cambiare tale stato di cose ci vorrebbe qualcosa di davvero miracoloso. Eppure non ci stanchiamo di indignarci quando muore un bambino, tanto la cosa appare innaturale, ingiusta, scandalosa.
Dostoevskij scriveva: «Nessun progresso, nessuna rivoluzione, nessuna guerra potrà mai valere anche una sola piccola lacrima di bambino. Essa peserà sempre. Quella sola lacrima piccolina…» Di lacrime di bambini è pieno il nostro mondo: un’accusa all’ingiustizia profonda della guerra in Ucraina, di quella a Gaza come di tutte le altre.
Basta interrogare gli anziani e farsi raccontare la loro guerra di quando erano piccoli: il buio (tutto è scuro durante la guerra, i colori quasi scompaiono), la puzza (la guerra ha i suoi odori ripugnanti), il freddo, la fame, la fatica, la sporcizia, la fuga, la vita brada, la perdita dei genitori, della casa, l’abbandono, la paura, l’incertezza, ogni tipo di violenza… Racconti che sono orrori ma che ci ridanno il senso vivo di dover fare sempre di tutto per non sprofondare nella guerra, magari per sonnambulismo, esaltazione o per inerzia.
Si tratta sempre di un gorgo infernale senza fondo. Lo possiamo fare tutti: ergersi a difesa della pace come difesa del tempo delle possibilità e del futuro contro il tempo dell’annientamento, un contro-tempo, un tempo all’indietro. Si capisce bene il valore della pace nelle parole dei bambini o di chi si ricorda la guerra da bambino: molto meglio che nei ragionamenti di adulti spesso irragionevoli o esaltati.
Nelle coscienze dei piccoli qualcosa di simile avviene quando la perdita, l’abbandono, l’assenza accadono a causa di solitudine, povertà o violenza. Per i bambini è pur sempre una guerra nel senso di privazione, danno, smarrimento. Nei racconti di guerra (ce ne sono a migliaia, di guerre vecchie e nuove) vediamo cosa significa restare soli e piccoli dentro il terrore.
MADRI
È l’aspetto più lacerante: quando non c’è più la mamma, un rapporto di salvezza a cui i bambini credono fino alla fine, anche quando la madre non c’è più. La aspettano per sempre. Ma poi ci sono – è una costante nei racconti di guerra – tante altre donne che si improvvisano mamme per bambini non propri, donne eroiche nel silenzio (le abbiamo viste molto bene in Ucraina) che si ammazzano di fatica, si levano il cibo di bocca, aiutano a fuggire, si inventano qualunque cosa davanti al mostro della guerra.
Donne – talvolta quasi bambine – che prendono per mano i piccoli soli senza arrendersi all’inevitabile, che cercano di offrire un po’ di normalità dentro l’orrore, pensando al dopo anche quando nessuno ci crede più. Sono le tattiche elettive per risparmiare il sangue.
Guardare con gli occhi di chi da piccolo vive o ha vissuto la guerra è il modo migliore per capire la vita e il suo inestimabile valore. Si tratta forse di un’esagerazione? Soltanto esagerando tuttavia si può davvero comprendere e sentire con vera empatia, ci si può avvicinare ai sentimenti di perdita totale e di smarrimento assoluto.
Solo allora si capisce veramente cosa significa essere soli da piccoli, senza la mamma, senza adulti protettivi, abbandonati lungo i binari di una ferrovia straniera o uccisi appena adolescenti durante una guerra privata fra uomini. Salta agli occhi un’improvvisa consapevolezza: anche se piccolissimi i bambini sanno, capiscono.
Per loro è chiara la differenza tra bene e male, tra pace e guerra, tra violenza e gentilezza, tra pericolo e sicurezza. Intenerirsi sui destini dei bambini ucraini, palestinesi, israeliani, significa fare qualcosa nell’oggi, così come commuoversi per il destino di Andrei o di Alex deve provocare una reazione nel presente. Per tutti la vita è una lotta ma per i più piccoli può portare alla morte. La premio Nobel bielorussa Svetlana Aleksievic ha scritto: «Dire l’indicibile è il ruolo della letteratura».
L’indicibile è alle nostre porte, dentro casa nostra, vicino a noi più di quanto pensiamo. Sta in agguato pronto a divorarci anche in un mondo apparentemente tranquillo. L’indicibile si rafforza nel buio del non ascolto, del disinteresse o nella pigrizia del sentirsi immuni. Ogni segnale d’allarme deve costituire per ciascuno una scossa che eviti tragedie.
Di ogni avvertimento occorre far tesoro per reagire. La sofferenza dei bambini rappresenta un macigno insopportabile. Il loro sguardo, il loro pianto, quella “lacrima piccolina” può risvegliare dal grigio torpore degli uomini adulti, ciechi e sordi perché presi da sé stessi. Quella lacrima di Andrei, di Alex, di Bronson e di tutti i loro piccoli fratelli e sorelle.