Il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari ha ragione nel proporre di rinunciare a parte o a tutti i 123 miliardi presi a prestito con il Pnrr. Viene solo da chiedersi dove fosse quando il Parlamento ha deciso di chiedere tutti quei soldi alla Commissione Europea su proposta di un governo di cui il suo partito faceva parte. Il problema è che quei soldi non sappiamo come spenderli, e rischiamo di spenderli su progetti inutili o addirittura dannosi. Ecco un elenco di motivi per cui rinunciare in parte o in toto ai fondi a debito del Pnrr è una idea da valutare seriamente.
1.Il Pnrr è nato nel modo sbagliato. Invece di ragionare in modo informato su quali fossero le nostre esigenze e le nostre priorità, quali le nostre capacità di realizzarle, e decidere in conseguenza quanto prendere a prestito, il processo che ha portato al Pnrr è stato esattamente l’opposto. Si è voluto portare a casa più soldi possibile per poi porsi il problema di come spenderli. A quel punto si è chiesto alle amministrazioni pubbliche di tirare fuori i progetti che avevano nel cassetto. Poi, resisi conto che anche attuandoli tutti si sarebbe arrivati a spendere solo una minima parte dei prestiti richiesti, si è cercato di spostare sul Pnrr progetti già avviati, opere già cantierate, contro un principio basilare di addizionalità dello stesso Pnrr. E comunque anche così non si riesce a spendere tutto quello che abbiamo preso a prestito. Il risultato si vede chiaramente anche nei programmi dei partiti per le elezioni: una lista della spesa infinita con decine di proposte strampalate, perché “tanto ci sono i soldi del Pnrr”. Nessun Paese, e tantomeno l’Italia, è in grado di spendere così tanto in così poco tempo. Ci sono i tempi tecnici, e poi ci vogliono le competenze e la capacità di spesa. Il che ci porta al secondo problema.
2.Si è fatto troppo poco per migliorare la nostra capacità di spesa. Con il nuovo Codice degli Appalti si è persa l’occasione di affrontare un problema che abbiamo denunciato da mesi: ci sono troppe stazioni appaltanti e molti Comuni non sono in grado di gestire gare d’appalto e di seguire i lavori. I concorsi pubblici che avrebbero dovuto aiutare le amministrazioni locali a sopportare il peso del Pnrr sono stati avviati abbassando gli standard anziché porsi il problema di come attrarre le competenze necessarie con retribuzioni e prospettive di carriera adeguate. Il Formez non fornisce dati puntuali sul riempimento di questi concorsi, ma parla di risultati non soddisfacenti e documenta abbandoni in massa di tecnici assunti presso la Presidenza del Consiglio. Si è deciso di cambiare la governance del Pnrr spostando responsabilità dal ministero dell’Economia, l’unico ad avere sufficienti capacità gestionali e di monitoraggio, aPalazzo Chigi.
3.Le priorità sbagliate. Si è scelto di spendere decine di miliardi sulle voci più semplici e più gradite all’ideologia dominante a Bruxelles, senza chiedersi se erano le nostre vere priorità. Per esempio, se ci guardiamo indietro siamo ancora convinti che l’Italia avesse un bisogno pressante di 40 miliardi per una generica digitalizzazione, più di 1000 euro per abitante, e pochi miliardi per le periferie e la qualità della vita?
4.La fretta. Gli stadi di Firenze e Venezia di cui si è tanto parlato in questi giorni sono un esempio perfetto dei disastri causati dalla combinazione di un fiume di denaro e della fretta di spendere. Per la qualità della vita di milioni di nostri giovani è chiaro che sarebbe molto più importante un programma capillare di micro-impianti sportivi ben gestiti e ben mantenuti. Ma è molto più facile spendere soldi in fretta su mega impianti già esistenti. A Rfi che normalmente spendeva 2 miliardi all’anno per investimenti è stato chiesto di triplicare la spesa. Il risultato è che invece di attuare il già previsto miglioramento delle linee esistenti, col Pnrr si sono stanziati miliardi per l’Alta Velocità al Sud per ottenere lo stesso risultato moltiplicando i costi.
5.La trasparenza, il monitoraggio e il controllo della società civile. Con fondi così ingenti, è quasi impossibile controllare cosa fa il governo. Non ci riesce nemmeno la Corte dei Conti (si veda la relazione al Parlamento del marzo di quest’anno). È vero che finora abbiamo soddisfatto tutte le decine di obiettivi intermedi imposti ogni semestre dalla Commissione: ma sono condizioni formali, sulla sostanza sappiamo poco di quanto e come è stato effettivamente speso.
Non è vero che rinunciando ai fondi presi a prestito l’Italia farebbe una pessima figura: prendere atto della realtà è uno dei marchi dei veri statisti. Nessun Paese, neanche i meglio amministrati, potrebbe gestire utilmente ed efficientemente un tale fiume di denaro in così poco tempo. Non ha senso prendere a prestito per spendere in progetti con scarso valore per la società: anche questa sarebbe una dimostrazione di intelligenza, non di fallimento o di mancanza di capacità progettuale. Non è neanche vero che “tanto Bruxelles non ce lo permetterebbe”: è una decisione politica, le regole si cambiano, se c’è un motivo convincente. Non lo è certo l’idea del ministro Fitto di spostare progetti dal Pnrr ad altri fondi statali o ai classici programmi europei (cofinanziati dall’Italia) per guadagnare a tempo.
Vorrebbe dire sostituire un debito europeo a tasso quasi zero con debito italiano a tassi molto più alti.