Palermitana, in pensione dopo tanti anni trascorsi tra gli archivi notarili, pubblica il primo romanzo – una storia di donne siciliane del Novecento – e diventa subito bestseller. Qui ci spiega perché
«Avrebbe colpito chiunque, non solo me: è stata la scena del panierino con il neonato che una signora bene di inizio ’900, dopo aver simulato per nove mesi una gravidanza che non c’è, si fa salire in camera nella notte ad accendere la mia fantasia. E quella scena era ben descritta nel verbale di inventario di eredità che mi sono ritrovata tra le mani quando dirigevo l’archivio notarile di Salerno. Da lì è venuto il resto. Anche se il resto è differente, c’è uno stupro e personaggi che vi ho costruito intorno». Il resto sono le oltre 400 pagine («ma erano molte di più!») diCome l’arancio amaro, uscito a fine giugno per Bompiani e volato subito in vetta alla classifica dei libri più letti, dove è rimasto tanto da divenire il caso editoriale di questa estate rovente. L’autrice è l’esordiente Milena Palminteri, una loquace e ironica signora di 75 anni, palermitana di nascita, salernitana d’adozione, che al momento della pensione, dopo una vita negli archivi notarili, ha deciso di reinventarsi.
«Ho ormai assolto tutti i miei compiti di moglie e di madre, i figli sono grandi», ci dice subito con voce squillante quando la raggiungiamo al telefono a Ravello, dove è in vacanza con il marito. Partendo da una storia vera, il romanzo si muove tra gli anni Venti e Sessanta del Novecento, sullo sfondo il fascismo, la mafia e le battaglie eterne che le donne devono fare per poter scegliere in un mondo che ha già scelto per loro.
Da più di due mesi condivide lo scettro di più amata dai lettori con Donatella Di Pietrantonio, fresca vincitrice dello Strega, e Francesca Giannone che è stata l’autrice più letta del 2023. Come vive questo successo inaspettato?
«Come mi ci sono trovata in mezzo non lo so, me lo tengo e sto zitta(ride).
Attraverso i social (per me è la prima volta su Instagram) mi è piovuta addosso una valanga di messaggi che mi hanno messo quasi in difficoltà, perché è una visibilità che ti travolge da un momento all’altro e non è facile da gestire, se fossi stata più giovane forse sarei stata più pronta».
In effetti lei è una delle esordienti meno giovani d’Italia…
«Dica pure attempata (ride ancora) ».
Perché la scrittura è arrivata in questo momento della sua vita?
«È il risultato di una passione che c’è stata sempre, ma non mi sono mai sentita pronta per affrontare una pagina in maniera diversa da una lettera burocratica. Così mi sono detta: qui bisogna riempire i vuoti.
Lavoro e famiglia si prendono così tanto del tuo tempo che le passioni le devi per forza lasciare da parte. Io sono arrivata alla pensione quando già i miei figli erano grandi, a quel punto ho iniziato a colmare le lacune. Ho trovato la scuola di scrittura creativa di Antonella Cilento e lì ho imparato prima a scegliere le letture, poi a scrivere. Anche se quando mi sono confrontata con la libera scrittura mi sono accorta che, essendo di un’altra generazione, ho un grande censore dentro…».
Il romanzo nasce da una storiascovata in un luogo insolito come un archivio notarile. In realtà c’è molto del suo precedente lavoro qui: non solo la figura di Carlotta, una delle protagoniste, che come lei dirige un archivio notarile, ma anche la cura nella ricerca storica viene da lì.
«Di ricerca storica ne ho fatta tanta.
La Sicilia occidentale sembra aver distrutto quella parte di storia che riguarda il fascismo, mentre siamo pieni di storie sul prima raccontate da storici veri e storici finti. C’è un unico personaggio realmente esistito che ho inserito nel romanzo, il politico che si introduce nel fascismo attraverso la mafia, e gli ho cambiato nome: da Abisso in Tabisso. Ma il giro a quei tempi era quello».
E la cura nell’uso della lingua invece da dove viene?
«È così che ho trovato la mia voce.
Non mi piace la scrittura ordinaria, curo molto la ricerca della parola, ogni tanto me ne affiorano alcune che pensavo dimenticate e cerco di fermarle, a quest’età vengono le fisime(ci scherza su)».
Parlando della lingua, ha scelto di usare il siciliano, pur non vivendo più in Sicilia da tanto: perché?
«Perché non lo volevo dimenticare.
Anzi avrei voluto usare il siciliano puro, non il siciliano italianizzato, che resta comunque la carta vincente scoperta dal grande Camilleri».
A proposito di Camilleri, quali sono gli scrittori siciliani, di ieri e di oggi sino alle nuove autrici di saghe di successo, che l’hanno ispirata?
«Il primo è Pirandello, con la sua filosofia di vita. C’è una sua frase a me molto cara che suona così: “Noi siamo i primi nove anni della nostra vita”. E in questo libro ci sono davvero i primi nove anni della mia! Tutto ciò che racconto sulla campagna l’ho imparato in quegli anni in cui andavo tutte le estati a San Marco, vicino a Sciacca, dai nonni. La San Marco del libro era la mia campagna. Poi se andiamo avanti direi Consolo e Bufalino. Nella loro scrittura mi ritrovo, sono innamorata del suono poetico di Consolo. Con le nuove autrici non sento affinità — forse sono troppo nostalgica — anche se scrivono di cose che conosco benissimo, chi non ha memoria della famiglia Florio in Sicilia?».
Il suo romanzo è una storia di emancipazione che mette in scena ildramma del corpo femminile sottomesso, usato (parlavamo di stupro), colpevolizzato (per una maternità che non c’è), tema quanto mai attuale. Lo definirebbe femminista?
«Non ho iniziato a scriverlo con questo intento, ma la via era quella, siamo talmente bombardati da situazioni così insopportabili».
E cosa dice questa storia alle donne di oggi? In un certo senso nessuna delle sue tre protagoniste incarna l’ideale della donna madre.
«E questo è il trionfo della donna e basta. Troppo spesso c’è un’identificazione della donna come madre. E perché non la donna che non è mamma, quella che non riesce a esserlo, o non vuole esserlo? In questo senso, tra le tre Sabedda è la più forte, perché decide che il destino del bambino che porta non deve essere come il suo e se ne priva.
Al contrario di Nardina, che per cultura è più strutturata, Sabedda è libera da pregiudizi, perché non è cresciuta con una donna vicino, non ha avuto la mamma, non ha avuto la nonna, e si sacrifica. In Carlotta c’è la forza dell’una e la grazia dell’altra.
Nella mia vita ho fatto tante rinunce, Carlotta invece l’ho voluta vincente».
Ci sono altre storie nei suoi cassetti?
«Ora c’è una grande confusione, continuano ad affiorare ricordi della Sicilia, della mia famiglia ai tempi di mio nonno, dei suoi cinque figli, tra cui uno che mi affascina per il talento geniale che aveva, misto anche a qualche tara… una figura che ti fa chiedere dov’è la normalità. Mi fermo qui, sennò parlo troppo…».