L’heure de la réconciliation intrapalestinienne a-t-elle sonné à Pékin ?
24 Luglio 2024Gli ultimi delle Vele
24 Luglio 2024
di Massimo Franco
Non si può dire che il governo di Giorgia Meloni sia aiutato a ricucire con l’Ue dopo il voto contro l’elezione della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. Si pensava che dopo lo strappo si tentasse un riavvicinamento per isolare quella scelta e non schierare l’Italia all’opposizione dell’Europa. Ma ieri Ignazio La Russa, presidente del Senato e massima carica istituzionale di FdI, ha fatto sapere di avere «apprezzato» il no del suo partito a von der Leyen. Di più. Ha detto: «Avevo scommesso che non avremmo votato a favore». Al di là dell’irritualità, sono parole destinate a non rasserenare i rapporti tra Palazzo Chigi e le istituzioni di Bruxelles. È vero che secondo La Russa c’è stato un voto contrario «senza rompere con von der Leyen». Ma averlo rivendicato, precisando di condividere «una posizione politica che non compromette il rapporto e le aspettative dell’Italia», si inserisce in un passaggio già delicato dei rapporti europei. Sono emerse polemiche per le scelte compiute dalla Nato sul fronte del Mediterraneo, con uno spagnolo preferito a un italiano. E a questo si aggiunge una trattativa difficile sul commissario da assegnare al nostro Paese. Se è difficile pensare che l’Ue si prepari a «punire» il governo, è anche illusorio ritenere che la decisione di Meloni, nella quale interesse nazionale e identità di partito si sono un po’ sovrapposti, non abbia nessuna conseguenza. Se non sarà sulle nomine, il contrasto sarà sui conti pubblici e su alcune riforme sempre rimandate: anche perché è difficile rimuovere il macigno del debito pubblico. Per questo, è sacrosanto affermare che sarebbe inaccettabile se l’Italia fosse penalizzata per il modo in cui ha votato, insieme con l’estrema sinistra e con i Patrioti per l’Europa anti-Ue e filorussi. Ma il tema, di nuovo, è come evitare di trasformare una votazione in uno smarcamento duraturo; e come resistere a chi lo vorrebbe. Anche perché in questa fase Palazzo Chigi appare più vicino alle posizioni della Lega di Matteo Salvini che a quelle di FI e del ministro degli Esteri Antonio Tajani, esponente del Ppe e sostenitore di von der Leyen. Si tratta di una novità inedita, perché finora la politica estera è stata il puntello sul quale la premier ha costruito la propria credibilità internazionale, condividendo con FI il sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa. Nella maggioranza che ha confermato von der Leyen questo principio rimane una sorta di preambolo irrinunciabile. Il rischio è che la solidarietà atlantista possa apparire meno convinta. Qualche avversario del governo potrebbe avere interesse a accreditare questa versione. È un pericolo da sventare quanto prima.