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FIRENZE
La città sta celebrando Giulio Paolini, uno degli artisti europei più importanti e innovativi degli ultimi cinquant’anni. Chiamarlo “artista concettuale” è fuorviante. I suoi concetti vengono plasmati in corpi sensibili.
Come tutti i grandi, è innanzitutto un creatore di spazio e un demiurgo di corpi che modella mondi paralleli con le macerie del passato. Maestro indiscusso della prospettiva, pioniere delle ibridazioni, dell’intertesto e del citazionismo, rinnovatore della tradizione classica, ha lavorato con la pittura, la scultura, il teatro, la videoarte.
Autore di una quantità di libri fondamentali e teorico dell’arte, Paolini ha costruito un universo che si espande, influenzando artisti in tutto il mondo. Dalla Fondazione Giulio e Anna Paolini, costituita nel 2004 nella città d’adozione, Torino, si custodisce e si promuove la sua vasta carriera; le ultime opere sono in mostra fino al 7 settembre al Museo Novecento e in quello di San Marco, a Firenze. Quando è il presente?
(la frase è tratta da una lettera di Rainer Maria Rilke a Lou Andreas Salomé) è una riflessione sulla temporalità e la nostra impossibilità di afferrarla. «Solo l’arte – nelle parole dell’artista – eccezione o testimone dell’eternità, è in grado di risolvere le contraddizioni della cronologia». A quasi 82 anni, Paolini accenna alla sua mortalità; eppure la mostra non è animata da uno spirito crepuscolare. Gli spazi si aprono, i colori fioriscono e il tempo scorre non verso la fine, ma verso l’infinito dimostrando la vitalità creativa ancorastravolgente dell’artista.
Il dialogo ha sempre avuto un’importanza enorme nella sua opera. Non solo nell’ultima mostra, in cui c’è una conversazione tra lei e due altri artisti (De Pisis e Vitone), ma anche in tante opere passate in dialogo con la tradizione.
«Un artista, come ormai si dice che io sia, è un po’ condannato al monologo. Cioè, l’artista, lo scrittore, chiunque eserciti la propria inventività è una forma singola di parlato. Ed è per questo che latentazione di una via d’uscita da questo parlare con sé stesso è costituita dalla ricerca di un interlocutore».
Questa voce nel suo caso viene spesso dal passato.
«Ho il culto del libro; a casa ho una bella stanza ricolma di libri la cui presenza mi è indispensabile. I miei compagni di viaggio, per usare un’espressione un po’ troppo consueta, si annidano in quei libri».
C’è un’idea di Sir Thomas Browne, che a Borges (un autore che so essere molto importante per lei) piaceva tanto, secondo cui così come per gli antichi le anime trasmigravano nei corpi, esiste anche una trasmigrazione di idee e di forme artistiche.
«Quest’idea non solo mi piace, ma si solidifica in un risultato sempre univoco. Oltre che dire che le forme espressive si assomigliano e si rincorrono io vorrei arrivare a dire (ma lo so che è un paradosso) che non sono le varie forme espressive a rincorrersi ma addirittura la forma espressiva: cioè il quadro, il libro, sono sempre la stessa cosa. Sono il compimento di qualcosa che si chiama quadro o libro e che è sempre uguale a quelli che l’hanno preceduto e che sarà il modello per quelli che lo seguiranno. Certo, tutto è anche diverso, ma il seme cheprovoca queste forme di espressione è sempre lo stesso».
“Quando è il presente?” è una mostra incentrata sul problema della temporalità, dell’impossibilità di fermare il tempo. Ma nella sua opera lo spazio è sempre stato il grande protagonista. Pensa che l’arte sia fondamentalmente la creazione di spazio artificiale?
«Sì. Un’opera d’arte visiva è tale solo quando viene associata allo spazio che la contiene. La sua natura oggettiva si manifesta soltanto quando questo quadro abita quel dato spazio. E quindi, esagerando un po’, il quadro manifesta sé stesso quando è visto come qualcosa di abitante uno spazio».
Nella mostra lei interviene su uno spazio molto speciale, una delle celle affrescate dal Beato Angelico nel Museo di San Marco. Come ha concepito il suo “Noli me tangere”?
«Da giovanissimo, quando invocavo le mie parentele ed elencavo i contesti e i luoghi che mi avevano portato a tentare di essere artista, il primo mi pare fosse proprio il Museo di San Marco. E questo a causa del Beato Angelico, che è stato sempre il mio primo modello artistico. Quindi per me quest’occasione di oggi è stata quasi un miracolo di opportunità. Riguardo all’affresco in particolare non so tradurre in parole la ragione per cui l’ho scelto. Quella scena lì delNoli me tangere è quella che mi ha calamitato perché c’è come un contatto invocato, ma mancato, tra le mani che si muovono desiderose del contatto, ma che non lo attuano».
Un’altra questione è stata da sempre fondamentale nella sua opera, cioè la prospettiva. La prospettiva è un meccanismo visivo che mette in evidenza le limitazioni della vista, perché è sostanzialmente un inganno, una forma di produrre l’effetto del tridimensionale. Tra l’altro, nel creare questa finta profondità, la prospettiva coinvolge il senso del tatto, che è il senso attraverso cui percepiamo il mondo in tre dimensioni. Ha pensato al ruolo che ha nella sua opera il senso del tatto?
«Mi piace questa definizione di prospettiva come correzione della visione. Per manifestare qualche cosa che si possa chiamare arte c’è sempre bisogno di ricorrere agliartifici, in primo luogo alla prospettiva. Il tatto forse non è nella tastiera più frequentata dal pittore.
Però aggiungo alla mia adorazione per il Beato Angelico un’altra per Canova: è il non plus ultra della scultura neoclassica, e lo si vede. Il tatto è molto importante nella scultura perché la statua ha la qualità di qualcosa di tattile».
La Paolina Bonaparte della Galleria Borghese, quel cuscino schiacciato…
«Infatti. Immagine che io, tra l’altro, mi sono permesso di usare qualche volta, quel nudo sdraiato. Quindi, insomma, il tatto mi importa se mi penso scultore. Ma vede, per esempio, lei ha menzionato Borgesprima. Borges ha lasciato una traccia nella mia memoria di lettore, direi la più importante. E perché mi possiede sempre Borges? Perché è come se avesse un passo regolare, procede impeccabile, indisturbato, e però resta fermo. Non tocca mai in realtà le cose».
Le capita di pensare a che cosa rimarrà di lei dopo la sua scomparsa? Al di là dell’eredità materiale delle sue opere nei musei e nelle collezioni.
«Noi che tendiamo a manifestarci, vorremmo farlo anche dopo essere “partiti”. Non che ci tenga in modo supremo. Certo, tanta fatica non vorrei venisse dimenticata. Alcuni anni fa, con mia moglie che ora è scomparsa, abbiamo fatto questa fondazione che a tratti mi dà soddisfazione e compiacimento».
Se l’arte è una scommessa per il futuro, quando è il presente?
«Io, più che il futuro, ho l’idolatria del passato. E come modello l’eternità: Borges che cammina e sta sempre lì.
Non attribuisco al futuro un’evoluzione, un traguardo».
Allora forse il presente – dell’arte e in generale – è l’eternità.
«Sì, perché come si diceva prima, l’arte è sempre uguale a sé stessa nell’anima».
A lei interessa da tanto la questione di cosa sia un artista. Ma da dove viene l’impulso umano di fare arte?
«Siamo costituzionalmente soli e facciamo arte per toccare il fuori, un contatto che si pone come inevitabile e ineliminabile nella nostra natura. E questa cosa di uscire un po’ dai propri confini mi sembra una buona ragione per muoversi, ma muoversi significa anche conoscere la vanità del muoversi».