Franco Giubilei
Chi non ha mai visto una partita al Flaminio non può immaginare cosa sia veder gonfiarsi la rete quando la linea di porta è a pochi metri dalle gradinate. Roma-Milan 1990, è una bella domenica di primavera, si gioca nel vecchio stadio della Roma perché stanno ristrutturando l’Olimpico in vista dei Mondiali. Rossoneri a passo di carica grazie al miglior Van Basten, a segno per due volte, striscione a fuoco in curva Sud, quattro a zero finale e assalto degli ultrà romanisti a quelli del Milan con carica dei carabinieri a cavallo… Ora però cancellate cori, colori e gas lacrimogeni e avvicinatevi allo stadio Flaminio così com’è oggi, magari arrivandoci dal vicinissimo Auditorium di Renzo Piano e dopo essere passati dal Maxxi, giusto per dare un’idea di quel che c’è lì intorno, consci che non siamo in una periferia degradata ma a un passo dal quartiere più chic della Capitale, i Parioli: silenzio, cemento mangiato dall’umidità, vegetazione che si riprende palmo a palmo ciò che era stato coperto dall’asfalto del piazzale. Dentro, erbacce e sterpaglie sul prato di un impianto che era stato restituito a nuova vita dal rugby, una volta che la serie A di calcio aveva ritrovato la sua sede naturale all’Olimpico, da Italia 90 in poi. La vigilanza 24 ore su 24 di personale privato tiene lontani senzacasa e balordi che altrimenti lo trasformerebbero nel loro rifugio, nell’ex parcheggio sosta un camper con una famiglia di nomadi.
Intanto lo stadio deperisce in abbandono da dodici anni senza che si riesca a formulare un’idea plausibile che non sia il «progetto al quale non si potrà dire di no», vagheggiato con linguaggio alla Padrino dal presidente della Lazio Lotito. Con questa indefinitezza e con i tempi romani, una soluzione vera si perde nella nebbia di un futuro dove l’unica prospettiva certa è un lento decadere. Quando ancora si chiamava Stadio Nazionale, un impianto del 1911 progettato da Marcello Piacentini che sarebbe stato demolito e rimpiazzato dall’attuale Flaminio di Nervi, Vittorio De Sica venne a girarci le scene finali di Ladri di biciclette, fra fiumi di spettatori in uscita da una vera partita della Roma e miriadi di biciclette pronte a riportarli a casa.
Tutti sentimentalismi che importano a nessuno, se la vicenda del nuovo stadio di Milano, da costruire accanto al “Meazza” da buttare giù, non ha sollevato che proteste isolate, a parte il comitato di quartiere che si batte contro il megaprogetto che stravolgerà il quartiere di San Siro. Decenni di gioie e sofferenze sugli spalti scoscesi dei popolari, come si chiamava una volta il secondo anello, non hanno generato alcun sommovimento di cuore neanche fra gli ultras del Milan, i più sanguigni fra i tifosi di entrambe le sponde: sentiti in proposito su una loro pagina social, hanno derubricato la demolizione di San Siro a «buona occasione per dotare il Milan di uno stadio di proprietà, strumento oggi indispensabile per fare strada in Europa». Evaporata la passione spesa su quei gradoni di cemento, e bando pure al senso di appartenenza a un settore, la curva, un tempo vissuta come un luogo esclusivo dove nessun altro poteva entrare. Nessuno se non cari amici di passaggio, come Enzo Jannacci: arrivò in curva Sud prima di un derby dell’85 accolto da cori d’affetto e se ne andò ricoperto da sciarpe rossonere. Erano ancora gli anni degli sfondamenti agli ingressi o della gente che scavalcava cancelli sormontati da punte su cui ogni tanto qualcuno restava appeso con ferite di varia gravità.
Anni nutriti da passioni, più che sentimentalismi, che in una realtà come la Milano di oggi possono darsi per estinte, ma che anche in una città di tutt’altro tipo come Firenze non si sono certo tradotte nella difesa a spada tratta dell'”Artemio Franchi”, lo stadio della Fiorentina: i tifosi si sono proprio schierati col presidente americano Rocco Commisso e col suo piano di costruirne uno nuovo fuori città. Il Comune si è opposto e ora, grazie ai fondi del Pnrr in parte decurtati, si procederà alla ristrutturazione dell’impianto progettato da Nervi e inaugurato nel 1931. Per salvaguardarne le linee architettoniche, la fondazione Pier Luigi Nervi ha ingaggiato una battaglia con l’amministrazione locale e l’ha persa davanti al Tar. Al centro della questione, secondo i ricorrenti, «le molte incongrue scelte progettuali, in particolare la nuova copertura dello stadio, sovrastata da un impianto fotovoltaico, che risulterebbe fuori scala rispetto allo stadio e all’immediato contesto col risultato di alterare e impedire la percezione dell’opera». Si punta il dito anche contro «la previsione di nuove gradinate più vicine al campo di calcio in corrispondenza delle curve», che «cancellerebbe la forma e l’immagine della struttura di Nervi, dimostrando l’erroneità della previsione di un nuovo stadio sovrapposto, di fatto, a quello originario». Le scale elicoidali d’accesso alle curve e alla tribuna di Maratona, con la sua torre omonima da salvaguardare anch’essa, sono rimasti punti fermi anche nel nuovo stadio.
Al di là del valore affettivo vero o presunto di opere spesso risalenti al Ventennio, un valore riconosciuto a quanto pare solo da sparuti gruppi di intellettuali, c’è l’annosa questione degli stadi italiani, spesso di proprietà comunale là dove gli attuali modelli di business inseguono invece il modello inglese: impianti delle società attrezzati con supermercati, ristoranti e punti vendita del merchandising della squadra, con i prezzi delle gradinate alle stelle e lo stadio trasformato in discoteca prima del match. Da noi l’esperienza più vicina a questo tipo di calcio dal vivo è l’Allianz Stadium della Juventus: dimensioni ideali, ottima visuale sul campo, moderno e confortevole. Perfetto, ma freddo come le arene inglesi attuali, dove i soldi dei magnati russi e degli arabi hanno cancellato e ricostruito, Highbury e Stanford Bridge, per ricordarne soltanto due. In Italia di stadi di proprietà ne esistono altri tre, oltre a quello della Juve: a Bergamo, Udine e Frosinone.
Naturalmente non si tratta di bieca nostalgia per il cemento o i tubi Innocenti di cui era fatto più di uno stadio nel nostro Paese, ma un occhio di riguardo per costruzioni di pregio come il “Tardini” a Parma, col suo ingresso monumentale in stile liberty, garantirebbe, quando si può, di mantenere strutture di pregio in buone condizioni di efficienza.
A Bologna, dove il “Renato Dall’Ara” razionalista è forse l’esempio più riuscito di inserimento armonico di un impianto sportivo all’interno di un contesto urbano, con tanto di portici e struttura in mattoni rossi, gli interventi compiuti per adattarlo alle esigenze dei Mondiali di trentaquattro anni fa lo hanno parzialmente deturpato. Peggio ancora è andata al “Meazza” a Milano, con l’aggiunta del terzo anello e, soprattutto, di una copertura metallica color arancio che nulla ha a che fare con lo stadio, per non parlare dei torrioni costruiti per sorreggere le gradinate supplementari, anch’essi corpi estranei rispetto allo stadio così com’era concepito. Non contenti, dopo averlo rimodernato ora vorrebbero demolirlo, ma almeno San Siro in questi anni è stato utilizzato: il Sant’Elia di Cagliari, realizzato dopo che le imprese di Riva e i suoi avevano lanciato la squadra isolana nell’Olimpo con lo scudetto del 1970, è finito fra le sedi di Italia 90 ed è stato ristrutturato. Dal 2017 non ci gioca più nessuno. Finirà in macerie, come San Siro.