(Questo articolo è stato pubblicato il 4 gennaio 2023)
Una divertente vignetta di Altan (apparsa su “Repubblica” del 12 dicembre scorso) rende bene la partita che si sta giocando con il congresso del Pd: “Il partito va smontato e rimontato”, dice l’operaio amico di Cipputi; “e il foglietto con le istruzioni?”, ribatte quest’ultimo (Cipputi, figura classica, ma forse fuori dal tempo: ci sono ancora operai che si preoccupano del “Partito”?). Ma a che punto siamo, davvero, con questo congresso? Cosa ci si può aspettare? Come interpretarne gli sviluppi? Proveremo qui a dare alcune nostre “istruzioni” per l’uso…
“Il congresso costituente del nuovo Pd”, così era definito un ordine del giorno approvato dalla Direzione nazionale del partito il 26 ottobre 2022: si leggono qui, appunto, le tappe del percorso congressuale. Com’è apparso subito evidente, si è trattato di un disegno farraginoso e bizantino, e da molte parti sono stati anche messi sotto accusa i tempi troppo lunghi. Il vero problema, però, non è stato questo, ma il cattivo uso che del tempo si sta facendo. Sulla carta, l’idea era semplice: una prima fase detta “costituente” in cui si sarebbe dovuto discutere del nuovo “manifesto dei valori”, e nel contempo dare tempo e modo di aderire a quanti, dall’esterno, volevano contribuire alla nascita del “nuovo Pd”; e poi la fase congressuale vera e propria, con la presentazione dei candidati, il voto degli iscritti e dei nuovi aderenti che seleziona i primi due, e ancora il ballottaggio (con le primarie “aperte” a tutti) il 19 febbraio.
In realtà, è saltato tutto, e da tre punti di vista. In primo luogo, nel partito non si è discusso per nulla, la “bussola” che doveva orientare la discussione preliminare sui “nodi” si è ridotta a un ottimo e professionale “questionario”, redatto dall’Istituto Ipsos, con una serie di domande (tipo: “quali sono secondo te le priorità per il Pd? Indicarne tre”), che offriranno certo molto materiale per un’indagine sociologica sul profilo dei partecipanti, ma che non serviranno minimamente a definire l’identità del partito. E forse, escogitando questa idea del questionario, non ci si è nemmeno resi conto della gravità del fenomeno di cui il ricorso a questo strumento è un sintomo: evidentemente, non si sa nulla di cosa pensano veramente iscritti, militanti e dirigenti…).
In secondo luogo, la stesura del nuovo “manifesto dei valori”, che aggiorni quello del 2008, è stata affidata a un comitato di 87 membri, di cui circa due terzi esponenti del partito, scelti con una rigorosa calibratura del peso delle diverse correnti, e per un terzo circa intellettuali o figure della società civile (tutte, ovviamente, con le loro idee, spesso molto divergenti). È apparso subito evidente il bivio cui si trovava di fronte questo comitato: o si faceva un puro maquillage del vecchio testo, o – aprendo una vera discussione – sarebbe emersa la radicale diversità delle prospettive. È accaduta questa seconda cosa, almeno nelle prime riunioni del comitato; ed è bene che sia accaduto. Merito, in particolare, di alcuni politici (Andrea Orlando, Peppe Provenzano, Roberto Speranza) e di alcuni intellettuali (Nadia Urbinati, Carlo Trigilia, Emanuele Felice), che hanno messo sotto accusa l’evidente impianto teorico neoliberista del testo del 2008.
Apriti cielo! Si sono scatenati i custodi dell’ortodossia ideologica del “Lingotto”: com’è possibile mettere in discussione un testo “firmato” da Reichlin e Scoppola? Alcuni interventi sono caduti persino nel grottesco: Reichlin presiedeva la commissione, ma poi (come racconterà in un suo libro due anni dopo: Il midollo del leone – titolo tratto da Italo Calvino –, Laterza 2010, pp. 124 e sgg.) il testo non ebbe alcun ruolo veramente fondativo, finì ben presto nel dimenticatoio; e Pietro Scoppola, purtroppo, morì due giorni prima che si insediasse la commissione; fu Reichlin, nelle pagine citate, a riferire tutti i dubbi e le riserve dello storico cattolico, che pure – nel 2006, al convegno di Orvieto, vero atto fondativo del Pd – aveva molto investito sull’impresa del nuovo partito.
Letta ha cercato di ricucire lo strappo nella commissione, ma non sappiano ancora come andrà a finire. Su una cosa i critici hanno ragione: questo comitato non ha, e non può avere, nessuna particolare legittimazione a rimettere mano al vecchio manifesto. Sarà un compito dei nuovi organismi. E anche in questo caso stupisce come si sia potuto pensare che un comitato nominato dall’alto, espressione dei più disparati orientamenti, potesse davvero scrivere la nuova carta di identità del partito. Evidentemente, non si era nemmeno riletto il vecchio testo, che sembra scritto davvero in un’altra epoca…
In terzo luogo, sono saltati i tempi di presentazione delle candidature, che in teoria sarebbe dovuta avvenire il 22 gennaio: la prima, subito dopo le elezioni, era stata quella dell’ex ministra Paola De Micheli; poi ha rotto gli indugi il candidato super-annunciato, Stefano Bonaccini; sono seguite le candidature, dopo la sua iscrizione al partito, di Elly Schlein, e da ultimo, un po’ a sorpresa, anche quella di Gianni Cuperlo. Per ora si può contare solo sulle interviste o i discorsi: non abbiamo ancora i testi delle piattaforme. Ma al di là dei nomi, cosa sta accadendo veramente? Ecco, qui è veramente la chiave del nostro “libretto di istruzioni”: è in corso, e lo si legge anche nelle cronache della stampa locale, “il posizionamento” (in appoggio a questo o a quel candidato/a) dei maggiori esponenti nazionali delle correnti e, a cascata, dei vari esponenti locali del partito, amministratori o dirigenti.
Questa fase è decisiva, ma non se ne può comprendere l’importanza se non si tiene presente un aspetto cruciale del meccanismo congressuale. Ogni candidato alla segreteria presenta una lista bloccata di candidati alla carica di componente dell’Assemblea nazionale: i voti ai candidati “trascinano” proporzionalmente il numero dei seggi spettanti ai loro sostenitori. Insomma, sono i candidati-segretario che “fanno eleggere” gli organismi dirigenti: non sono questi ultimi a scegliere un segretario. È evidente, quindi, che in questa fase preliminare si svolgono le trattative tra le varie sub-correnti che appoggiano un candidato. Tutte le mosse (si potrebbe dire, l’“ammuina”) di alcuni notabili – come il sindaco di Firenze Nardella, o quello di Pesaro, Ricci – si spiegano in questo modo: acquisire un peso specifico nella “coalizione” interna che appoggia un candidato. E forse si spiega così anche la candidatura di Gianni Cuperlo: una sorta di test, anche all’interno della corrente di sinistra, per misurare il proprio grado di sostegno nel partito e avere una propria specifica rappresentanza nella futura Assemblea nazionale (ma ci sono anche ragioni più politiche, come una certa insoddisfazione, in una parte della sinistra del Pd, circa il profilo della candidatura di Elly Schlein). Questo meccanismo propriamente plebiscitario rende le “correnti” e le “subcorrenti” un fatto organico e fisiologico. Ed è perfettamente ipocrita lamentarsene, come fanno tutti (spesso deplorando le correnti… degli altri!). Il Pd, così com’è, non può che funzionare in questo modo.
E adesso cosa accadrà? Intanto, aspettiamo le piattaforme, sperando che un qualche elemento di dibattito politico venga introdotto; e vedremo se i candidati diranno anche quale modello di partito hanno in testa, se e come intendono cambiarlo. Il 12 febbraio votano gli iscritti (nel frattempo è arrivata qualche notizia, finalmente, sul loro numero: registrando un drammatico calo, frutto però, probabilmente, anche della “ripulitura” dell’anagrafe, dopo anni di assoluta trascuratezza) e il 19 tutti potranno votare sui primi due.
La partita si giocherà sul livello della partecipazione: appare molto probabile che, alle primarie, si sfideranno Bonaccini e Schlein. Quest’ultima (che partiva sfavorita tra gli iscritti, ma che ora, con l’appoggio di quasi tutta la sinistra e di un “pezzo da novanta” come Franceschini, ha forti probabilità di piazzarsi al secondo posto) avrà qualche chance se, e solo se, riuscirà ad attivare un’adeguata massa critica esterna al partito, una “circolazione extra-corporea” che riesca a mobilitare forze che da tempo hanno abbondonato il Pd. Potrà riuscirci se, oltre a un messaggio innovativo sul piano del linguaggio e dei contenuti, riuscirà a proporre una credibile riforma del modello di democrazia e di partecipazione vigente nel partito.
Sembra tutto scritto – ma chissà. Il Pd è un partito scombiccherato, che affida l’elezione del suo segretario a una platea indifferenziata e mutevole di elettori, che magari si trovano a passare di lì per caso, davanti a un gazebo. E quindi, potrebbe anche crearsi un’ondata di opinione che segua la logica del “voto utile”: perché lasciare il Pd in mano ai soliti noti? Perché non provare a scombinare i giochi, a far saltare il tappo? Se non accadrà, vuol dire che a poter salvare questo partito oramai ci credono in pochi.