L’organizzazione degli studenti universitari palestinesi in Italia ha indetto, anche nel nostro paese, l’intifada delle università chiedendo che, a partire dal 15 maggio, gli studenti e le studentesse si accampino nei cortili universitari a imitazione di quanto avviene nei campus americani. Intifada è un termine che deriva dall’arabo e significa “scrollarsi di dosso”, da sempre riferito ai palestinesi intenti a scrollarsi di dosso gli israeliani, poi generalizzato con l’invito a rendere globale la rivolta e ora proposto nella versione universitaria. Cosa significa intifada universitaria? Che cosa intendono scrollarsi di dosso questi studenti? Nelle nostre università studenti e, in alcuni casi, docenti manifestano al fianco della “resistenza palestinese”, forse in un osceno fraintendimento dei termini. Un po’ come se, successivamente all’8 settembre 1943, ci fosse stato chi – nel mondo – avesse manifestato per Mussolini e le squadracce fasciste scambiandole per la resistenza partigiana in Italia. Di fatto questo è Hamas: il regime.
Vorrei sviluppare queste riflessioni concentrandomi su tre punti: 1) non è necessario essere fascisti per essere antisemiti; 2) quali sono le conseguenze, per il futuro, derivanti dall’ignoranza instillata dai cattivi maestri; 3) potremmo guardare più da vicino l’esempio di chi sta combattendo l’antisemitismo con risultati migliori dei nostri.
1) Quante volte notiamo persone che si fanno scudo dell’antifascismo per dimostrare che, al di là di tutte le evidenze, non sono antisemite? Questa è una prerogativa dei cattivi maestri: mai insinuare che gli ebrei gli stiano proprio antipatici, si offendono mortalmente. Loro criticano i governi d’Israele, non gli ebrei. Eppure basterebbe conoscere un poco la letteratura italiana, se non la storia, per scoprire che persino durante l’epoca fascista – quando non esistevano governi israeliani da criticare in quanto Israele, come stato, ancora non era nato – già esistevano intellettuali antisemiti e contestualmente antifascisti. Voglio farsi un esempio. A fine Ottocento, proprio negli stessi anni in cui si stava realizzando la Prima Aliyah, crebbe anche il fenomeno del pellegrinaggio cristiano, soprattutto per via della maggiore facilità di viaggio rispetto ai secoli precedenti. Tra questi pellegrini/viaggiatori spicca Matilde Serao, autrice e giornalista italiana. Anzi, il primo “direttore donna”, come si diceva a quei tempi, di un quotidiano in Italia, ruolo sino ad allora dominato dagli uomini. A margine del suo viaggio in Terra Santa, Serao compose un volumetto dal titolo “Nel Paese di Gesù. Ricordi di un viaggio in Palestina” che, in breve, divenne un best seller. Non dimentichiamo che Serao viene studiata nelle nostre aule scolastiche anche per il suo coraggio antifascista che le fece perdere il Nobel, assegnato nel 1926 alla Deledda. Eppure l’antifascista Serao disprezzava profondamente gli ebrei e ben poco conosceva della terra che si apprestava a visitare.
“Niuno qui, a bordo dell’Apollo – augurioso nome – parla di Palestina, che è vocabolo geografico non tanto comune: ma la sonante parola Soria ritorna sempre, tra i dialoghi dei viaggiatori. Soria!”
E’ chiaro che l’autrice, nel suo eccitamento, non aveva compreso il termine geografico, tanto da scriverlo proprio così: “Soria”, che non ha alcun significato. Come si può immaginare, la parola pronunciata dai compagni di viaggio dell’autrice altro non era che Siria. Ciò conferma il fatto che non solo la “Palestina” non era un’entità territoriale autonoma, neanche sotto l’Impero Ottomano, ma che il suo nome era sconosciuto alla maggior parte delle persone. Infatti, la Siria ottomana includeva l’area a est del Mediterraneo, a ovest dell’Eufrate, a nord del deserto arabico e a sud delle montagne del Tauro. Il dettaglio geografico non deve distoglierci però dalla descrizione del primo incontro della Serao con gli ebrei, che avviene sul treno da Jaffa a Gerusalemme: “Pallidi, con i capelli riccioluti sulle orecchie, dai berretti di lana, dai berretti di pelliccia spelata, sudici, emananti cattivi odori” scrive la signora del giornalismo italiano.
Serao non soltanto era influenzata dai pregiudizi antisemiti del suo tempo, ma li aveva fatti propri, sia in questo testo che, ancora di più, nel romanzo che scrisse di lì a poco, “La mano tagliata”. E’ tuttavia interessante notare il fatto che, nel 1905, la traduzione inglese del diario di viaggio nel paese di Gesù, non presentava le parti più specificamente antisemite.