Nell’introduzione alla prima edizione italiana de L’oppio degli intellettuali (Cappelli, 1958), pubblicato in Francia settant’anni fa, nel gennaio del 1955, Raymond Aron scriveva che molti suoi colleghi progressisti, «privi di pietà per le debolezze delle democrazie», erano disposti poi a tollerare i più turpi delitti, purché fossero commessi «in forza di una giusta dottrina».
Questa tendenza, che portava a giustificare lo stalinismo, era ampiamente diffusa anche in ambienti lontani dall’ortodossia marxista-leninista. Nel 1955 Aron decise di riprendere la carriera accademica, che prima della guerra aveva interrotto per dedicarsi al giornalismo. In realtà i suoi primi libri, scrive nelle Memorie, «non annunciavano certo un cronista del Figaro». La candidatura alla Sorbona non fu accolta da un pieno consenso, a causa della sua critica al marxismo e della scelta di aver privilegiato l’attività giornalistica sulla docenza. Lo storico Henri-Irénée Marrou ammise, in seguito, di aver perorato la causa di Aron in quanto autore dell’Introduzione alla filosofia della storia (la tesi dottorale del 1938) e non de L’oppio degli intellettuali.
Il comunismo, a cui l’intellighenzia si accostava con un atteggiamento devozionale, costituiva, scriveva Aron, la «prima religione per intellettuali che si sia affermata». I marxisti si presentavano come «atei con gioia», ma non potevano nascondere la preoccupazione per il vuoto che l’ateismo di stato avrebbe lasciato, un vuoto che solo una religione secolare avrebbe potuto colmare.
Il dubbio
In questo quadro, il proletariato assumeva una missione salvifica e il marxismo, come sosteneva Maurice Merleau-Ponty nel 1947 in Umanismo e terrore, non poteva considerarsi «un’ipotesi qualsiasi, domani sostituibile con un’altra, ma il semplice enunciato delle condizioni senza le quali non ci sarà umanità nel senso di una relazione reciproca fra gli uomini, né razionalità nella storia». Non era allora una filosofia della storia, «ma la filosofia della storia», in cui in cui il bene era incarnato dal proletariato e il male dalla borghesia. Fuori da questa visione del mondo, Merleau-Ponty scorgeva «solo fantasticherie».
In Le avventure della dialettica, otto anni più tardi, prese però le distanze rispetto all’inevitabilità della violenza rivoluzionaria, che affascinò sempre Jean-Paul Sartre, anche dopo la sua denuncia dell’invasione sovietica dell’Ungheria, nel 1956. Riguardo all’Unione Sovietica e al marxismo, Sartre entrò in contrasto anche con Albert Camus e in questo confronto emersero le contraddizioni che attraversavano l’esistenzialismo. Appariva chiaro, infatti, come fosse difficile coniugare la libertà teorizzata in L’essere e il nulla (1943) con una concezione della storia in cui i fatti assumevano un significato già assegnato.
Lo spirito dei Philosophes, che in Francia avevano sfidato la chiesa cattolica e l’assolutismo in nome della ragione, ammoniva Aron, non riviveva dunque nei loro eredi, che, due secoli dopo, si piegavano al «dogma secolare» della scolastica marxista. L’abbandono della ragione critica alimentava così, nei «veri credenti», la sensazione, di appartenere a una cerchia di eletti. In tale clima, Aron non si stancava di ripetere che la tolleranza nasce dal dubbio e auspicava «con tutto il cuore la venuta degli scettici, se hanno il compito di far sparire il fanatismo» e smascherare gli apocalittici e i profeti di salvezza.
Destra e sinistra
Quando si mettono a confronto le posizioni della sinistra marxista-leninista e della destra estrema rispetto al liberalismo, emergono elementi comuni. Il nazismo, evidenziava Aron, si rivelava meno conservatore di quanto ci si aspettasse a sinistra, in quanto considerava nemici non solo i socialisti, ma anche l’aristocrazia e la democrazia liberale.
Riusciva inoltre a mobilitare masse non meno povere rispetto a quelle reclutate dai socialisti. L’economia centralizzata, l’identificazione di stato e partito, la repressione violenta di ogni forma di opposizione, rendevano simili il bolscevismo e il nazismo, che esprimevano un netto rifiuto dei valori borghesi, un rifiuto che esercitò grande fascino sugli quegli intellettuali di destra e di sinistra, per i quali, scriveva Aron, «la riforma è noiosa e la rivoluzione eccitante».
Tanto la sinistra quanto la destra, sottolinea però Aron, non si identificano con l’assolutezza e la rigidità di un archetipo, anche se, in termini generali, siamo portati ad ammettere che la destra si caratterizza per la difesa dell’autorità, della famiglia e della religione e la sinistra per la rivendicazione dell’uguaglianza e della libertà.
Si può tuttavia constatare che in Francia, dalla Rivoluzione del 1789, la sinistra, come la destra, si dimostrarono incapaci di governare tenendo insieme le loro diverse anime. Girondini e giacobini furono infatti in conflitto perenne e monarchici e conservatori, dal canto loro, si divisero (con diverse sfumature nel tempo), fra sostenitori del modello inglese e nostalgici dell’Ancien Régime. Queste dinamiche si riproposero, nel corso del Novecento, nella contrapposizione fra riformisti e rivoluzionari, a sinistra, e tra liberali e nazionalisti reazionari, a destra.
Le divisioni nette avrebbero rischiato di ignorare la complessità della questione per un pensatore come Aron, che, nella prefazione a L’opium, si definiva un «keynesiano con qualche rimpianto per il liberalismo, favorevole a un accordo con i nazionalismi tunisino e marocchino, convinto che la solidità dell’Alleanza atlantica sia la migliore garanzia per la pace». A seconda che ci si riferisse alla politica economica, all’Africa del nord o ai rapporti est-ovest, poteva quindi essere considerato, concludeva, «di sinistra o di destra».
Quando aveva scritto che Alexis de Tocqueville non era amato né a destra, né a sinistra, perché muoveva le sue critiche tanto ai radicali quanto ai reazionari, Aron pensava, forse, anche a sé stesso.
«Spettatore impegnato»
Nel 1983, nelle Memorie, annotava che, dal 1977, i dibattiti degli anni Cinquanta sul comunismo e sull’Unione Sovietica, o quelli degli anni Sessanta sulla critica della società industriale, andavano esaurendosi «per mancanza di dibattenti». Molti temi al centro de L’oppio degli intellettuali appartenevano quindi al passato. Nel panorama politico-culturale francese Aron guardava con attenzione al gruppo della «nuova destra», che guidata da Alain de Benoist, mirava a conquistare l’egemonia ideologica, a lungo esercitata dalla sinistra. Prendendo spunto da un articolo di Benoist sull’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, Aron commentava che la professione di fede dell’autore era chiara: «Meglio il commissario sovietico dell’hamburger di Brooklyn».
L’antiamericanismo di Benoist si radicava in un rifiuto delle procedure democratiche, accusate di annullare l’autorità e la gerarchia. Alla maniera dei fascisti, ammoniva Aron, la «nuova destra», detestava la democrazia liberale e non poteva dunque essere assimilabile alla destra di Pompidou «e ancor meno a quella di Giscard d’Estaing», che costituiva a suo avviso, «una versione edulcorata del socialismo egualitario e una versione attenuata del mercantilismo americano».
Il rigore analitico, nello studio della politica e della storia, si coniuga sempre, in Aron, con l’etica della responsabilità di Max Weber, una figura che attraversa ogni momento della sua ricerca. L’immagine aroniana dello «spettatore impegnato» può rappresentare ancor oggi un sicuro orientamento etico-politico dinnanzi alle nuove forme di fanatismo ideologico, a una destra che, dagli Stati Uniti all’Europa, mette a tacere la sua anima liberale, legittimando regimi autocratici, e a una sinistra postcomunista che cerca affannosamente di ridefinire la sua identità. Appare dunque estremamente attuale il giudizio di Françoise Furet, che nel 1959 descriveva Aron come «il professore di una destra che non lo sta a sentire e di una sinistra che è in procinto di nascere».