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10 Novembre 2022Al vertice sul clima, a Sharm el-Sheikh, non tira una buona aria, sia per il rallentamento della decarbonizzazione, dovuto alla guerra in Ucraina, sia a causa delle conclamate violazioni dei diritti umani da parte dell’Egitto
Speriamo di essere smentiti, ma ci sono pochi dubbi che la Cop27 (Conferenza delle parti), il summit sui cambiamenti climatici – aperto domenica a Sharm el-Sheikh, che durerà fino al 18 novembre – sarà un ennesimo “bla bla bla”, come denunciò Greta Thunberg alla PreCop26 di Milano dello scorso anno. Se consideriamo, inoltre, che a ospitare l’incontro è il dittatore egiziano Abdel Fattah al-Sisi, siamo di fronte a una rappresentazione plastica del mondo di oggi, in cui la violazione dei diritti umani si coniuga con quella dei diritti ambientali. Il tutto aggravato dalla guerra tra Russia e Ucraina, che rende ancora più difficile affrontare il tema dei combustibili fossili e delle energie alternative.
Il vertice – al quale ha preso parte la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, e che vede assenti tre Paesi fondamentali nella lotta ai cambiamenti climatici come Russia, Cina e India, per ovvie ragioni relative al conflitto – si è aperto con un atto d’accusa del presidente francese Emmanuel Macron, l’unico leader europeo che non abbia esitato a puntare l’indice contro Washington e Pechino. “Abbiamo bisogno che gli Stati Uniti e la Cina accelerino sui tagli alle emissioni e sugli aiuti finanziari” – ha denunciato l’inquilino dell’Eliseo. “Gli europei – ha aggiunto – stanno pagando. Siamo gli unici a pagare. Bisogna fare pressione sui Paesi ricchi non europei, dicendo loro: dovete pagare la vostra parte”.
Il vecchio continente, infatti, è l’unico che cerchi di mantenere i propri impegni, operazione resa più complicata, appunto, dalla guerra tra Kiev e Mosca. Dalla presidente della commissione europea, Ursula von der Leyen, il solito mantra: “Dobbiamo fare tutto quanto è nelle nostre possibilità per mantenere l’1,5 gradi a portata di mano”. Niente di particolarmente eccitante, e del resto il vecchio continente non è in grado di esprimere qualcosa di meglio.
Dicevamo della leader di Fratelli d’Italia, per la prima volta impegnata in un appuntamento, importante più per la possibilità di realizzare incontri bilaterali tra i diversi Paesi partecipanti che per il fine per il quale è stato organizzato. La presenza della premier in Egitto ha creato qualche imbarazzo per l’irrisolta questione relativa alla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni, senza dimenticare quella dello studente egiziano dell’università di Bologna Patrick Zaki, per lungo tempo detenuto ingiustamente nelle carceri egiziane, poi liberato, ma ancora sotto processo e impossibilitato a uscire dal proprio Paese. Durante l’incontro, Meloni ha sollevato il tema della violazione dei diritti umani in Egitto, in particolare nei due casi che abbiamo ricordato. Parole al vento – e di circostanza – che, con tutta evidenza, non produrranno alcun risultato. Già la famiglia Regeni aveva espresso rammarico per la partecipazione dell’Italia a un vertice organizzato nel Paese responsabile dell’uccisione del proprio figlio. L’Egitto, come si sa, non ha mai collaborato per arrivare alla condanna dei responsabili. L’ultima rogatoria è andata a vuoto lo scorso mese di settembre. A differenza dei precedenti presidenti del Consiglio, l’attuale premier non si è neanche degnata di telefonare ai genitori di Giulio per garantire loro l’impegno a trattare il tema, per quello che può servire. Malgrado l’interesse del suo partito nei riguardi del caso del giovane ucciso, Meloni ha voluto privilegiare la necessità di normalizzare i rapporti tra Roma e il Cairo, ammesso che si siano mai realmente incrinati. Così sono stati firmati nuovi accordi di vendita di materiale bellico all’Egitto, mantenendo alta una tradizione di scambi commerciali che viene da lontano.
Prima dell’inizio del vertice, in tanti avevano chiesto all’Italia di boicottarlo. Era stato auspicato sulla pagina Facebook “Giulio siamo noi”, l’account collettivo di sostegno alla campagna, denunciando la sistematica violazione dei diritti umani nel Paese. Il giornalista e scrittore ambientalista Nicolas Lozito aveva intitolato un suo articolo Perché non andrò alla Cop27 in Egitto: senza libertà non c’è ambientalismo. A ciò, bisogna aggiungere la vicenda di Alaa Abd El-Fattah, blogger in sciopero della sete in carcere: un suo eventuale decesso oscurerebbe pesantemente la già compromessa immagine del regime.
Questo scenario non rappresenta certo una sorpresa, visto che in Egitto ci sono circa sessantamila prigionieri politici – e solo negli ultimi giorni le forze di polizia hanno arrestato sessantasette attivisti. Appare dunque poco credibile quanto sostiene un portavoce della Cop27, secondo il quale il processo di selezione dei membri della società civile sarebbe stato “completamente trasparente”, approvato dall’Onu, e le persone accreditate sarebbero state circa diecimila, numeri simili a quelli della Cop26 di Glasgow.
Le cose non sono così rosee come vengono presentate. Gli accrediti sono stati fortemente limitati dal governo egiziano: escluse le Ong per i diritti umani e le associazioni ambientaliste, hotel a prezzi proibitivi – trenta o quaranta dollari al giorno –, costi altissimi per chi proviene dai Paesi più poveri, in particolare dall’Africa. Il tutto condito da una cappa di terrore, che ha spinto Thunberg a disertare l’evento: “Lo spazio per la società civile sarà estremamente limitato. La polizia non garantirà l’opportunità di una mobilitazione” – ha precisato Greta. Quadro disarmante, ben descritto da Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International: “Le tattiche della National security agency (i servizi di sicurezza egiziani, n.d.r.), e le sue costanti minacce e intimidazioni, stanno distruggendo le vite di attivisti, difensori dei diritti umani e operatori delle Ong. Non possono lavorare né viaggiare e passano le giornate temendo di essere arrestati. L’obiettivo è chiaro: stroncare l’attivismo politico e quello per i diritti umani”.
A poco sono servite le rassicurazioni del regime, secondo il quale l’inclusione della società civile alla Cop27 è una priorità, concedendo a trentacinque Ong locali di partecipare alla conferenza. In realtà, secondo Hossam Bahgat, fondatore dell’Egyptian initiative for personal rights (Eipr), “l’elenco delle organizzazioni accreditate non include una singola associazione per i diritti umani: non c’è nessuno dei gruppi indipendenti per i diritti umani in Egitto, compresi quelli che stanno lavorando sul rapporto tra diritti umani, giustizia ambientale e giustizia climatica”.
Ma la questione climatica come arriva a questo appuntamento? Lo ha riassunto bene il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres: “Il mondo è su un’autostrada verso l’inferno climatico: cooperare o morire”. Malgrado fosse stato preso a Parigi “l’impegno per ridurre le emissioni in linea con l’obiettivo di 1,5 gradi, entro il 2030 anziché scendere del 45% aumenteranno del 10%, se non ci sarà un’inversione di tendenza” – ha puntualizzato Guterres. Inoltre, tornerà a galla la questione del loss and damage – ovvero i Paesi ricchi devono dare soldi a quelli più poveri per i danni già subiti da una crisi che non hanno contribuito a creare, aiutando in particolare l’Africa, il continente più povero e maggiormente colpito dall’emergenza climatica. Al riguardo, solo ventisei dei 193 Paesi presenti nel precedente summit, in Scozia, hanno intrapreso questa strada virtuosa, che prevedeva di fornire cento miliardi di dollari all’anno per aiutare i Paesi in via di sviluppo, registrando così un fallimento. Anche perché – tra coloro che fanno parte del G20 – continuano a esserci delle resistenze a percorrere questa strada. Il futuro si profila complicato.
Il meccanismo di compensazione è a rischio anche a causa della guerra che, com’è ormai noto, ha rallentato la decarbonizzazione. Non aiuta inoltre la “guerra fredda” tra i due principali inquinatori del pianeta, ovvero gli Stati Uniti e la Cina. Aggiungiamo a questo le esigenze dei Paesi che fanno riferimento al Mena (Middle East and North Africa), all’interno del quale ci sono i principali produttori di petrolio del mondo. Dall’Arabia saudita al Kuwait, dagli Emirati al Qatar e via dicendo. Il prossimo anno la Cop si terrà ad Abu Dhabi. Malgrado l’interesse di questi ricchissimi Paesi verso una transizione energetica sia da tempo visibile, sarà per loro complicato ridurre la produzione di gas e petrolio al fine di frenare i cambiamenti climatici.
Sono passati esattamente trent’anni dalla prima Cop del 1992, quando il mondo iniziò a trattare il riscaldamento globale dandosi appuntamento a Rio de Janeiro. Da allora, passi in avanti se ne sono fatti pochissimi; al contrario, il mutamento del clima ha subito negli ultimi anni un’allarmante accelerazione in un contesto mondiale in cui continuano, fatalmente, a prevalere altri interessi. “I cambiamenti climatici sono una minaccia esistenziale per il mondo intero se non si fa niente al riguardo” – ammonì l’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. E, purtroppo, nulla o quasi si è fatto – a cominciare proprio dal Paese dell’ex inquilino della Casa Bianca.