Le aporie della società contemporanea sono sotto gli occhi di tutti, non serve frequentare le costosissime scuole occidentali per vedere con chiarezza le contrarietà e le storture di quello che ci obbligano a chiamare progresso. Anzi forse è proprio studiando nelle università moderne che si finisce poi per diventare ciechi del tutto, quando basterebbe uscire e guardare quello che succede fuori da casa nostra. Ogni pomeriggio il traffico di Roma si intensifica fino al collasso, e nelle vie del mio quartiere la marcia delle automobili acquisisce qualcosa di ipnotico; tutto diventa così lento, che pian piano ti addormenta. È un movimento che spegne le menti, come un narcotico. E tu a forza di guardare questo spettacolo finisci in trance, finché ad un certo punto, in mezzo al pantano delle automobili, passa un rider. E ti chiedi: cos’era quel corpo estraneo in tutta questa immobilità? Ad un primo esame visivo si tratta di uno che va di corsa mentre tutti gli altri vanno piano. E perché lui non va piano? Semplice: perché non può. Sembrerebbe qualcuno che corre per andare a lavoro, mentre in realtà è una persona che sta già a lavoro. Non si tratta di professionisti del cronometro, o di atleti, sono solo ragazzi che si precipitano da qualche parte della città portando con loro degli zaini enormi e colorati, che sembrano un giocattolo giapponese per quanto sono strani a vedersi.
Credo che la loro corretta definizione sia ciclofattorini, ma se li chiamassimo davvero così, quel mestiere poi, di certo, non lo farebbe più nessuno. Perché si capirebbe benissimo subito che si tratta di un lavoro di merda. In più i genitori preferiranno sicuramente pensare che il figlio faccia il rider piuttosto che il ciclofattorino, che è una parola abbastanza avvilente dal punto di vista professionale. Infatti una volta questo era il mestiere di chi non era in grado di fare nessun mestiere. E ancora prima, a Roma, i lavoratori di questo tipo si chiamavano cascherini, una figura presente anche nel carnevale romano, cerimonia scomparsa alla fine dell’800, come tutta quella Roma sfrattata da sé stessa, per le esigenze dell’Unità d’Italia. Quindi il cascherino era il garzone del fornaio, che se ne andava in giro in bicicletta col cestino del pane sul davanti. Cestino che a quanto vedo, nella modernità, si è pericolosamente spostato sul di dietro. Ma adesso hanno preferito chiamarli rider, perché la lingua inglese ha un grande potere mistificatorio, riesce a contraffare, adulterare il vero senso delle parole. Come faceva Don Abbondio ne I Promessi Sposi, che parlava in latino per confondere l’uditorio. E poi il nome rider si porta appresso tutta l’epica di certi film americani. Fatto sta che attribuire un nome inglese ad un mestiere di merda lo fa subito diventare migliore.
Ma i miglioramenti, purtroppo, finiscono qui, perché nonostante questo accorgimento formale si tratta di una professione fatta interamente di sfruttamento e precariato miscelati in parti uguali. Per retribuire i lavoratori, infatti, i geni della new economy hanno mischiato tutti i sistemi di pagamento inventati dall’uomo nei secoli dei secoli: a consegna, a quantità, a cottimo, con varianti per l’orario, il meteo, la distanza, l’attesa. In più i rider non dipendono da un datore di lavoro, ma da una piattaforma virtuale, un’entità astratta online che coniuga immanenza e trascendenza, cioè ti comanda ma non esiste. È come un Dio di tipo monoteista, che però c’ha il tuo numero di telefono e ti scrive sul dispositivo che hai in mano o in tasca. Inoltre la collocazione dall’azienda in una dimensione oltremondana impedisce al lavoratore di venire riconosciuto come sottoposto ad un lavoro subordinato con qualcuno, oltre che a garantire così una distanza sesquipedale fra le parti, tanto che a nessuno possa venire in mente nemmeno di interessarsi agli utili e alle plusvalenze sviluppati dall’azienda stessa. Perché il rider intrattiene rapporti non con chi produce ciò che viene trasportato, ma con qualcun altro, che però ha il sofisticato requisito di non esistere fisicamente, che non ha una sede dove andare a citofonare, non ha un ufficio dove recarsi per chiedere spiegazioni o semplicemente il riconoscimento di un diritto; non è in nessun luogo, quindi non c’è.
Dicono che questi lavoratori siano inesperti e giovani, ma io ho visto lavorare alle consegne uomini di 40 anni. Anzi, anche di 50. Ma proviamo a fare ordine. Andare a mangiare la pizza in pizzeria è, a livello teatrale, un rapporto a due: tu mi dai la pizza, io ti do i soldi per la pizza. Ordinare la pizza che ti porterà un rider è invece una cosa a quattro, e le parti sarebbero, chi acquista, chi vende, chi consegna, chi ordina a chi consegna. In pratica colui che compra la cena col telefonino lo fa presso un’attività dove non vuole o non può andare di persona. Chi vende lo fa a chi, altrimenti che in questo modo, non potrebbe essere suo cliente, per distanza o altri complessi motivi. Chi trasporta il cibo invece non conosce né chi vende e né chi compra. E chi governa chi consegna non conosce né chi vende, né chi compra, e nemmeno (cosa più grave di tutte) chi consegna. Ma avete contato quanti “non” ci stanno in tutta la trafila? Con tutte queste negazioni, come potrà, quella che inizia con la nostra ordinazione, essere una bella serata per tutti?
O meglio la serata sarà super bella per la piattaforma, che avrà guadagnato dalla sua casa immateriale, senza aver assunto nessuno e senza contrarre nessun rischio di impresa, sarà molto bella per il venditore, che comunque fa una vendita ulteriore, pur rimanendo a casa, sarà abbastanza bella per il cliente, che mangia stando a casa, purché accetti di mangiare cose che possono essere trasportate in condizioni di fortuna, quindi che non abbiano a che fare con la gloriosa cucina tradizionale italiana. Ed infine la serata sarà molto molto meno bella per il rider, che infatti in tutta questa sceneggiatura è l’unico che non sta a casa. Ma questo è il nuovo stile di consumo per gli individui, che si è addirittura evoluto in scuole e stili diversi. I rider sono maschi, in maggioranza stranieri, in maggioranza non studenti, in maggioranza non parlano nemmeno l’italiano. Alcuni lavorano con le ordinazioni cedute da altri ancora che incassano una parte della corsa. Sono diffidenti con chi li avvicina, perché è un lavoro che sta nelle crepe delle già lacunose discipline contrattuali. Esistono in una specie di classifica meritocratica, che va per efficienza e non ho capito cos’altro. So che si vendono anche gli account, oltre che qualcosa dell’attrezzatura, e noi crediamo di sapere tutto quello che li riguarda, mentre invece il loro mondo resta oscuro e in buona parte sconosciuto.
Lavorano con un mezzo proprio, bicicletta, motorino o monopattino privato o a noleggio. E accessori tipo la protesi per lo smartphone, o lo zainone che sembra il comodino di mia nonna. Quando torno a casa dal lavoro di notte mi capita di incrociarne qualcuno, e mi chiedo ma chi è che deve mangiare il sushi a quest’ora? Ma chiunque tu sia non ti potevi fare due spaghetti aglio e olio, o una tazza di latte coi biscotti senza costringere questa persona che vedo a portarti da mangiare? Il fatto è che questi nuovi ultimi mi hanno tolto anche il sordido piacere di lamentarmi della mia condizione. E poi spariscono dal campo visivo, perché vanno sempre di corsa. Lasciando una scia di pesante solitudine, che è la loro, della persona presso cui vanno, della persona da cui vengono, e della piattaforma inesistente che non è una persona. È la solitudine all’ennesima potenza, quella che accompagna il rider nel suo cammino. I ciclofattorini sembrano usciti dalla scatola che portano sulla schiena, ma non del tutto, o che scappino da quella scatola senza riuscirci, che non riescano a liberarsene. Quando li incontro di notte gli lascio strada e poi li guardo filare via lontano. Sembrano dei paguri con le ruote.