Il problema dell’amore non è quello dell’intensità, piuttosto quello della durata – dato che la passione arde e consuma chi la prova, come una candela che brucia da entrambe le parti. Come può un sentimento del genere resistere allo scorrere del tempo? Dunque, quello tra Catherine Earnshaw e Heathcliff dev’essere animato da un principio demoniaco; qualcosa di disumano, o forse sovrumano, capace di superare ogni ostacolo temporale e persino i confini della morte. Wuthering Heights, Cime tempestose, è infatti un romanzo di demoni e fantasmi, che può suscitare nel lettore incantamento, entusiasmo, dipendenza, terrore, o addirittura disgusto. Si tratta di un caso davvero singolare nella storia della letteratura: come ogni oggetto di culto, suscita fanatismo o repulsione, spesso le due cose insieme dato che si diventa fedelissimi del libro stregati proprio dai suoi aspetti aberranti, dalla sua crudeltà il più delle volte gratuita, di una purezza inspiegabile proprio perché oggettiva, che io personalmente ho riscontrato solo in certi racconti di Kleist e in particolare in quello che s’intitola Il trovatello, che in comune col nostro romanzo ha un protagonista venuto dal nulla e capace di tutto. Heathcliff «is a fierce, pitiless, wolfish man», è un uomo feroce, spietato, simile a un lupo, ma l’intera storia è come intossicata da un veleno che in tutti gli altri personaggi agisce in forme diverse generando un vizio estremo, il carattere che è il loro contrassegno: il capriccioso egoismo di Catherine, la brutalità di Hindley e poi di suo figlio Hareton, la detestabile e bigotta saccenteria del servitore Joseph, la fiacchezza lagnosa di Linton. «Non riesco a leggere un libro se tutti i personaggi li odio!» ha scritto un lettore su Goodreads, che è l’ideale palestra per lettori fanatici, innamorati o furibondi, pro o contro. «Avrei voluto ammazzare Heathcliff con le mie mani!» scrive un altro, a cui fa però da contraltare un giudizio estremamente sincero, ed eloquente: «Di base odio tutti, ma questo libro è bellissimo». Dico che è eloquente perché conferma l’irresistibile potere incantatorio del genere romanzo. Quanto è noiosa e in definitiva inutile la sociologia della letteratura, tanto più interessante sarebbe una “sociologia della lettura”, specie ora che una quantità di lettori, prima assolutamente anonimi, e, per così dire, muti, sono liberi di esprimere sui social media i loro amori e i loro furori, in appassionatissime disamine dei libri letti, spesso più significative di qualsiasi recensione ufficiale o saggio accademico.
L’unica volta in vita mia che ho chiamato una radio per far mettere un disco con dedica («A Lucia, with love») dev’essere stato nel 1978, la canzone era appunto Wuthering Heights di Kate Bush, una ragazzina elfica, e il pezzo era andato al primo posto in classifica malgrado saltellasse su un tempo dispari pressoché sconosciuto alla musica pop, raggiungendo note altissime che facevano incrinare i vetri – e di cui ancora oggi mi succede di canterellare in loop il ritornello:
Heathcliff, it’s me, I’m Cathy
I’ve come home, I’m so cold
Let me in your window…
Ora è vero che in Wuthering Heights c’è molto sadismo, ma c’è soprattutto molto masochismo, c’è masochismo persino nel vendicarsi, come farà Heathcliff dopo le umiliazioni subite, dato che la vendetta procura infelicità a chi la porta a termine non meno che a chi la subisce. Leggendo delle sue malefatte siamo totalmente deprivati del sottile, morboso piacere che, invece, proviamo quando il personaggio che è stato maltrattato o tradito si riscatta ritorcendo la violenza sui suoi persecutori, dal Conte di Montecristo alle novelle di Poe Una botte di Amontillado e Hop-Frog, fino a Cane di paglia di Sam Peckinpah e Carrie, e a tutti gli altri revenge-movies. E dunque, non sarà ancora più masochista il lettore, che si sottopone (ricavandone un delizioso appagamento…) alla tortura di questo libro ermetico, desolante, vendicativo, alla storia della tortuosa rappresaglia che Heathcliff porta a segno nei confronti delle famiglie Earnshaw e Linton – e tutto ciò nel nome di un amore impossibile? Eppure c’è chi se l’è letto dieci, dodici volte (io tre), e la spiegazione forse si potrebbe trovare nel vecchio Freud, quello di Aldilà del principio di piacere, nella capacità perversa e miracolosa di tramutare la pena in godimento, come quello della falena affamata di luce che continua a sbattere e sbattere sulla lampada accesa. Insomma, Heathcliff e Catherine saranno pure orrendi, ma vengono redenti dall’amore, scrive su Goodreads un altro lettore risucchiato e annegato nel vortice nel libro. Eppure una domanda continua ad aleggiare: è veramente questa una storia d’amore, oppure non lo è? E se non è amore, cos’è? Furia, destino, mania? Può una passione non essere ossessiva? L’amore redime chi lo prova, oppure lo danna, come accade ai nostri personaggi? Oppure ancora li danna, però li rende immortali? (Varrebbe la pena citare qui un altro successo degli anni ‘80, il tetro Love will tear us apart dei Joy Division…). Le domande si sono perciò moltiplicate. Il dibattito tra i lettori è animatissimo, e uno di loro se la cava con una battuta ironica piuttosto azzeccata: “Be’, si tratta sicuramente della più grande storia di amore non accaduta.”
Ancora una domanda: Heathcliff è davvero l’ultimo eroe romantico? Oppure è solo (come afferma un lettore imbufalito) una gran testa di cazzo?
Be’, quando il romanzo venne pubblicato, nel 1847, il romanticismo era agli sgoccioli se non bello che defunto e sepolto dall’epoca vittoriana; ma forse era proprio questo ritardo, questo indugiare anacronistico, a permettere la trasformazione di Heathliff nel primo eroe decadente piuttosto che l’ultimo romantico. Talvolta arrivare fuori tempo massimo assume il valore di una profezia, ed essere un provinciale isolato come lo erano Emily e le sue sorelle si rivela un vantaggio invece che un handicap. Ciò che rientra nella definizione di “romantico” è da sempre oggetto di entusiasmo e esaltazione da un lato, e scetticismo o persino derisione dall’altro; diventa facilmente sinonimo di eccesso, isteria, fanatismo. Ma forse ha ragione Anne Brontë a ricordare che «quello che il mondo stigmatizza come romantico è alleato della verità più spesso di quanto comunemente si creda». E dunque sorge un’ulteriore domanda: cosa è stato realmente il Romanticismo? E cosa vuol dire esattamente, oggi, “romantico”? A quale atteggiamento corrisponde?
È singolare come da un libro e dall’idiosincratico profilo della sua autrice si possano ricavare lezioni quasi opposte. Emily Brontë è oramai un mito established, il pellegrinaggio alla canonica di Haworth dove vissero le “tre sorelle strambe” come le chiamava Ted Hughes (più l’autolesionista fratello Branwell, capace di cancellarsi da solo dal famoso ritratto di famiglia…) quasi un obbligo per chi ha cuore l’emancipazione femminile. Confesso di non aver visto il recente film di Frances O’Connor dedicato a Emily, ma nel trailer che lo promuove con didascalie maiuscole la si definisce RIBELLE, CORAGGIOSA, PASSIONALE, e soprattutto LIBERA! Di converso, una lettura rigidamente politically correct del suo romanzo non potrebbe che censurare proprio l’aspetto che infiamma di più i suoi lettori, e cioè la passione tra Catherine e Heathcliff. Non si tratta forse del più perfetto esempio di “amore tossico”? E il suo protagonista, una volta spogliato del suo fascino, non è in definitiva un abusatore, pronto a sequestrare e torturare la moglie, il figlio, la futura nuora – e tutto ciò nel nome del suo amore tradito? In un mondo come l’attuale dove l’identità di ciascuno viene gelosamente difesa e ritenuta inviolabile, in che modo accogliere l’esaltata affermazione di Catherine: «Io non amo Heathcliff, io sono Heathcliff»?
(E sempre a proposito di Ted Hughes, impossibile non ricordare che a poche miglia da Haworth è sepolta sua moglie Sylvia Plath… cioè un’altra illustre vittima femminile dello Yorkshire…)
Ecco, io trovo comunque eccitante questo accapigliarsi intorno a un libro, che ha peraltro assunto in via definitiva lo statuto indiscutibile del classico. Uno ha il diritto di trovare pallosi Le affinità elettive o i Promessi sposi, e mollare la Recherche di Proust dopo trecento pagine e l’Ulisse di Joyce dopo cento… ma insomma, le reazioni di ripulsa che Wuthering Heights provoca, nessun altro classico, forse nemmeno de Sade, riesce a suscitarle! Naturalmente si tratta di una netta minoranza, in un rapporto di uno a cinque, forse uno a dieci rispetto alle voci infervorate degli aficionados. Ma un aspetto singolare e forse interessante è che tra i delusi e i detrattori ce ne sono diversi che invece avevano amato Jane Eyre della sorella Charlotte, cioè colei che la storia (con annessa mitobiografia) ci consegna come l’equilibrata, giudiziosa, accorta amministratrice delle fortune letterarie di casa Brontë. È naturale che, alla distanza, la ribelle abbia la meglio sulla ragionevole. Ma si tratta anche di un indiretto duello tra le protagoniste dei due romanzi: la fiera Jane contro la bizzarra Catherine. Io, piuttosto, non scelgo: o meglio, scelgo entrambe.
Quindi per misurare l’ampiezza dell’aura intorno a Cime tempestose mi sono appassionato a vagliare le innumerevoli versioni che ne sono tratte per il cinema e la tv. C’è persino uno sceneggiato del 1956, il terzo a essere prodotto dalla Rai nella sua storia (scelta coraggiosa, a ben pensarci); e naturalmente la versione di William Wyler del 1939 dal classico titolo italiano La voce nella tempesta con Laurence Olivier, Merle Oberon, e un giustamente pallido David Niven nella parte di Edgar Linton – dove, appunto, la voce del fantasma di Catherine risuona ammaliante e disperata nell’infuriare della tempesta: “Igliff… Igliff…!” – ed è infatti così che lo pronunciavano mia madre e mia nonna: “Igliff”. Quindi, fra i molti altri, un film del 1992 dove l’amabile Ralph Fiennes si esercita in una carrellata di sguardi sempre più torvi che gli sarebbero stati utili in seguito nella sua carriera; e la bravissima Juliette Binoche, terribilmente miscasted nella parte delle due Catherine, madre e figlia, si sbizzarrisce in stranezze. Un po’ in tutti i film si avverte la difficoltà di riarrangiare nel formato compresso del film la trama ferrea del romanzo, con i suoi incroci familiari necessari e implacabili; e malgrado lo sforzo di scenografi e costumisti, invano si è provato a ricreare la sepolcrale tetraggine del soggiorno di Wuthering Heights e dei suoi abitanti quando in apertura arriva mr. Lockwood mezzo assiderato, durante la classica “notte buia e tempestosa”…
In alcune versioni viene però conservata una frase memorabile ripresa pari pari dal libro: «Piangere sarà il tuo unico passatempo!».
Dicevo: Catherine 1 e Catherine 2. Linton 1 e Linton 2. In Cime tempestose le generazioni viziate o abusate si susseguono ereditando le tare della precedente. Alcune eminenti angliste (volete sapere chi? Nadia Fusini e Ginevra Bompiani) hanno umilmente confessato, dopo tante letture del romanzo, di confondersi ancora con i ricorrenti nomi dei personaggi e con i loro (pressoché incestuosi) rapporti di parentela, e un simile smarrimento dovette averlo Virginia Woolf, la quale detestava la volgare usanza di scribacchiare sui margini delle pagine, eppure si vide costretta a disegnare un albero genealogico degli Earnshaw e dei Linton (diabolicamente intrecciati da Heathcliff, il figlio di nessuno) per raccapezzarsi tra le generazioni.
Grazie all’ineguagliabile vantaggio di parlare per interposta persona, facendo letteratura si possono confessare pubblicamente cose che uno non avrebbe mai il coraggio di rivelare alla sua più intima amica, come scrive Anne, la trascurata per quanto dotatissima terza sorella Brontë, all’inizio del suo romanzo Agnes Gray. E fu proprio questa spudorata confessione dell’inconfessabile a dar scandalo presso i primi recensori di Wuthering Heights: dovevano aver intuito che sotto lo pseudonimo di Ellis Bell si nascondeva una donna, il che rendeva ancora più stridente e provocatoria la messa in scena di personaggi così perturbanti. Sbigottiti, i critici reagirono con espressioni simili a quelle che St-John Rivers rivolge a Jane Eyre nell’omonimo romanzo di Charlotte: «Non dovresti usare queste parole, violente e false, e per niente adatte a una donna. Tradiscono pensieri inopportuni, meritano una severa condanna». Eppure è proprio da questa sconvenienza che, nel tempo, è scaturito il mito di Cime tempestose e della sua indocile autrice. Oggi Emily non ha più bisogno delle giustificazioni con cui Charlotte tentò di difenderla post mortem dalle accuse di immoralità, presentandola come una figura creaturale, a suo modo ingenua e dunque irresponsabile, “più forte di un uomo e più candida di un bambino”; una figura mistica “bisognosa di un interprete tra sé e il mondo”, aliena da qualsiasi compromesso con la vita, “happiest when most away”, cioè tanto più felice quanto più lontana. Lontana da cosa? Da tutto e da tutti, fuorché dalla scrittura. In vita nessuno, nemmeno le sorelle, potè avere accesso “al segreto della sua mente e dei suoi desideri”, come invece grazie al romanzo possiamo fare noi lettori, senza pregiudizio. E va be’, concediamo pure che Cime tempestose sia un “accidental masterpiece”, un capolavoro involontario prodotto da una selvatica fanciulla circondata dalla morte, proprio come la canonica di Haworth era circondata dal cimitero (anche se io dubito fortemente esista un libro che si sia scritto da solo, e non ho mai creduto alla leggenda del genio inconsapevole…). In pratica, cosa cambia?
La verità, forse, è che si tratta di un libro crudele perché l’epoca era crudele – anzi, è la vita in ogni epoca a essere crudele, a esserlo sempre stata. «Il mondo si basa su un principio di distruzione, e la creazione stessa è insensata» aveva scritto Emily, in francese, quando si trovava a Bruxelles. Si potrebbe perciò invertire l’ordine dei fattori, come suggerisce un’altra grandissima Emily – sì, proprio lei, la “zitella di Amherst”, Emily Dickinson: «Pardon my sanity in a world insane». A essere folle è insomma il mondo, non l’artista che lo indaga, o chi sceglie di tenersene alla larga. Certo, in Wuthering Heights Emily Brontë ha abbondato sul lato oscuro, rispolverando l’intero l’armamentario del gothic novel: c’è dentro proprio tutto, inganno, vendetta, misteriose scomparse e apparizioni, cuccioli assassinati, fantasmi, maledizioni, brughiere desolate, morti in sequenza, i venti ululanti da cui il titolo… Ma perché mai non avrebbe dovuto o potuto farlo una donna, se appena una trentina d’anni prima una ragazza non ancora ventenne, Mary Shelley, aveva dato vita allo sgangherato e potentissimo Frankestein? Siamo sicuri che la creatura mostruosa sia solo frutto d’immaginazione? E non, piuttosto, un nostro perfetto e illustre rappresentante?
Può darsi che l’equivoco nasca dall’ipoteca realistica che, già a metà dell’Ottocento, incombe su un genere destinato a egemonizzare l’intero spazio letterario, il romanzo: ciò che in un’opera moderna rischiamo di trovare inverosimile o eccessivo, invece lo accettiamo nei poemi cavallereschi, sulle tavole di un palcoscenico oppure nel mito: dove vengono commesse nefandezze tali da far impallidire quelle di Heathcliff – altro che far fuori un cagnolino! Lì si divorano figli, si va a letto con le proprie madri, si tagliano teste per uno sgarbo, si strangolano bambini, si tradiscono gli amici e si vende la propria sorella…
Il lettore scandalizzato dalla crudezza del libro di Emily Brontë, cosa direbbe allora di Edipo Re, del Riccardo III o della stessa Bibbia – traboccante com’è di atti infami e spietatezza?
Non è semplicemente favoloso che sia stata una riservata ragazza di campagna a creare un villain, un autentico cattivo, come non se ne vedevano dai tempi del teatro elisabettiano? E che gli abbia messo in bocca tirate di una virulenza retorica che risale a Shakespeare o a Marlowe? Ma sì, Heathcliff, Heathcliff, che dopo aver salvato la vita del piccolo Hareton se ne rammarica, e immagina di rimediare all’errore fracassandogli la testa sui gradini della scala…
Insomma, questo romanzo andrebbe forse letto come si legge un poema antico, o si ascolta una leggenda, o si assiste ammutoliti a una tragedia – storie governate dalla furia, dalla magia e dal delirio: poiché il delirio, talvolta, può essere più umano e realistico della ragionevolezza.