Ho scelto te una vampira per amico. Per i vent’anni di Carmilla.
11 Febbraio 2023“Cozzolino corrotto dal Marocco” L’eurodeputato Pd finisce in carcere
11 Febbraio 2023
di Federico Rampini
Il resto del mondo non si agita per l’ennesima querelle franco-italiana. Visti da Washington, Pechino o Mosca, dispetti ripicche e gelosie attorno alle fughe in avanti della coppia Macron-Scholz sembrano un déjà vu, e abbastanza irrilevanti. Il motore franco-tedesco dell’Unione è in uno dei punti più bassi della storia. A un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, la coesione degli europei è stata possibile soprattutto per il lavoro di cucitura dell’America. Nessuno dimentica che Macron aveva dichiarato la «morte cerebrale della Nato», poi si era voluto accreditare come mediatore con Putin ricavandone solo umiliazioni. Scholz subito dopo l’invasione annunciò una svolta storica nella politica tedesca della difesa, il mese scorso ha dovuto licenziare la ministra incaricata di realizzarla. Il governo italiano s’impermalisce per essere tenuto fuori dalle iniziative di una coppia che naviga in un mare di guai (l’ultima offesa è l’aver ricevuto Zelensky da soli, come se Macron-Scholz parlassero a nome di tutta l’Unione).
Non conta più di tanto, chi sia l’inquilino di turno a Palazzo Chigi: gli sgarbi di questo tipo furono inflitti tante volte e a prescindere dal colore politico dei governi, nostri o altrui.
Un ricordo recente conferma che certi pregiudizi si estendono dalle cancellerie al mondo dell’informazione: quando il 16 giugno 2022 la troika europea Draghi-Macron-Scholz fece uno storico viaggio a Kiev per benedire la candidatura ucraina all’Unione, molta stampa americana parlò di iniziativa franco-tedesca. E quello era Super Mario. (Peraltro molta stampa italiana ignorò la presenza di un quarto leader, il presidente romeno, come fosse invisibile: a ciascuno i propri stereotipi).
Ciclicamente l’Italia scopre che l’Europa ha «figlie e figliastre», perché a Berlino e Parigi vengono perdonati comportamenti che verrebbero criticati se li praticasse Roma. C’è un fondo di verità ma il giudizio sul ruolo dell’Italia nel mondo guadagna obiettività se viene osservato da lontano: dall’America o dall’Asia o magari dal Cremlino.
Il ruolo nella guerra ucraina, per esempio. Nonostante la lodevole fermezza di Roma, i suoi aiuti militari sono inferiori a quelli della Polonia, Paese molto meno ricco. Forse è perché non possiamo fare di più, con i magri arsenali di cui disponiamo. Frutto di decenni di una politica di difesa rinunciataria; salvo lamentarci quando scopriamo un Mediterraneo affollato di flotte militari altrui (e non amichevoli).
Il ruolo nella nuova guerra fredda delle tecnologie: per frenare l’emorragia di tecnologie strategiche verso la Cina, Biden ha dovuto chiedere l’aiuto di Olanda e Corea del Sud, che hanno eccellenze nel campo dei super-microchips più avanzati, in cui l’Italia non è un campione mondiale. Pro-memoria: negli anni Cinquanta la Corea del Sud era più povera dei Paesi nordafricani, oggi il suo Pil sorpassa quello italiano.
Per tentare di contrastare l’inquietante avanzata della Divisione Wagner in Africa, gli Usa hanno contato sulle forze francesi (anche se con crescenti difficoltà: vedi la cacciata dal Burkina Faso delle truppe di Macron).
Per svezzare l’Europa intera dalla sua dipendenza energetica verso Putin, decisiva è stata la rapidità con cui la Germania ha avviato ben sei rigassificatori. Su altri terreni come gli armamenti Scholz è lento, inefficiente e impacciato, ma nella sfida dei rigassificatori ha compiuto un autentico exploit. La stampa americana gli riconosce il merito di aver realizzato in cinque mesi quello che in tempi normali richiederebbe cinque anni.
Sono esempi scelti non a caso: il peso di un Paese nel mondo si costruisce anche con investimenti di lungo periodo nelle tecnologie avanzate, negli apparati di difesa, nella proiezione strategica verso aree contese dalle superpotenze antagoniste.
Ribadito che né la Germania né la Francia sono ai massimi della loro influenza, e certe fughe in avanti nascondono le difficoltà di Scholz e Macron, l’Italia passa troppo spesso dal ruolo di «impermalita e offesa», alla ritirata dalle proprie responsabilità internazionali. L’influenza tedesca nel mondo si è sedimentata in settant’anni di una performance industriale impeccabile, aiutata dalla cogestione fra le parti sociali, la stabilità monetaria, il rigore nelle finanze pubbliche. L’influenza francese è proporzionale al ruolo che Parigi assegna alle proprie forze armate: le uniche ad avere ricevuto un aumento di risorse davvero sostanziale in questi ultimi mesi.
Nei Paesi che contano di più, le classi dirigenti rispettano l’antica massima di uno statista americano: «my country, right or wrong» , è la mia patria, quando ha ragione e quando ha torto. È più difficile costruire credibilità nel lungo termine, se ogni governo contesta il suo predecessore, e se l’opposizione cerca sponde straniere per screditare chi guida il Paese. Anche l’opinione pubblica ha le sue responsabilità, se ha un’attenzione effimera verso quelle grandi sfide che richiedono costanza per decenni.
L’irritazione di Giorgia Meloni verso Macron-Scholz ha un antefatto che precede il vertice con Zelensky. L’Amministrazione Biden sfida l’Europa con due iniziative lungimiranti ma controverse. Washington stanzia 370 miliardi per la transizione energetica e le tecnologie verdi, altri 280 miliardi per la ricerca scientifica e per riportare a casa le produzioni di semiconduttori più strategici. In ambedue queste manovre c’è una componente protezionista: gli incentivi vanno a chi produce sul suolo nordamericano. Con la concreta possibilità di risucchiare negli Usa molte multinazionali europee. Per limitare i danni Macron e Scholz di fatto negoziano con Biden su questi temi, arrogandosi delle competenze che spettano a Bruxelles. Peraltro la Germania è già pronta a lanciarsi in una escalation di aiuti di Stato alla propria industria: può permettersi di inseguire Biden su quel terreno, vista la buona salute dei conti pubblici tedeschi. Questi sono temi su cui l’Italia deve preoccuparsi ben più che del galateo nei vertici con Zelensky. Purtroppo anche sul terreno della politica industriale l’Italia può prendersela con se stessa se non conta quanto la Germania: non è colpa dei tedeschi se Roma ha un debito pubblico fra i più alti del mondo; o se le poche risorse che ha da spendere le dedica all’assistenzialismo anziché a promuovere le attività del futuro.
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