Che l’America non voglia più salvare l’Europa, l’ha detto con chiarezza a Bruxelles, mercoledì scorso, Pete Hegeseth. Parlando ad una riunione del Gruppo di Contatto sull’Ucraina, il segretario alla Difesa americano ha sostenuto che «salvaguardare la sicurezza europea deve essere un imperativo per i membri europei della NATO», non più dell’America. Peraltro, spetta agli europei fornire «la gran parte dell’aiuto militare letale e non letale all’Ucraina». Aggiungendo quindi che i governi europei «debbono spendere il 5% del loro Pil nella difesa», dicendo «con franchezza al loro popolo che le minacce possono essere affrontate solamente spendendo di più nella difesa».
L’America, ha precisato, «non tollererà più una relazione sbilanciata che incoraggi la dipendenza europea». Due giorni dopo, alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco, il vicepresidente americano Vance ha tenuto un discorso (con il titolo significativo “On the Fall of Europe”, “Sulla caduta dell’Europa”) con cui attacca la democrazia europea e le sue istituzioni e regole liberali. Per Vance, i veri nemici dell’Europa sono all’interno, non all’esterno. L’Europa non sta declinando a causa di Putin, ma dell’establishment europeo che la governa. Un establishment che «ha aperto le porte ad un’immigrazione incontrollata» finalizzata a scardinare le identità nazionali, che «ha cancellato la libertà di parola» con la giustificazione di contrastare le notizie false e la politica dell’odio, che «ha messo addirittura in discussione i risultati elettorali» (in Romania) con l’alibi che essi erano stati condizionati dall’esterno (dalla Russia). Se l’Europa «teme gli elettori (allora) non c’è nulla che l’America possa fare per essa». È l’Europa, non la Russia, ad essere prigioniera della sindrome autoritaria. Finito il suo discorso, Vance ha quindi incontrato la leader del partito neonazista Alternative für Deutschland, Alice Weidel, l’unica che «può salvare la Germania».
Come promuovere un’Unione capace di rispondere all’elettroshock trumpiano? Tre opzioni possibili, tanto per cominciare. La prima consiste nel riformare il sistema decisionale dell’Unione europea (Ue). I 27 governi nazionali decidono di introdurre il voto a maggioranza qualificata nella politica di sicurezza, rafforzando il coordinamento dei rispettivi sistemi di difesa e promuovendo cooperazioni industriali transnazionali. Questa opzione è evidentemente irrealistica. Gli stati membri dell’Ue sono divisi nel campo della sicurezza, hanno diversi interessi militari e industriali, hanno una diversa percezione delle minacce esterne. Ogni tentativo di riforma è destinato a infrangersi contro il muro del potere di veto dell’uno o dell’altro stato membro. La seconda opzione consiste nella differenziazione della politica della sicurezza, con alcuni stati membri che vanno avanti attraverso una cooperazione rafforzata, come previsto dai Trattati. I loro governi decidono in autonomia, rispondendo ai rispettivi parlamenti nazionali, ma non ad un’istituzione legislativa che rappresenti collegialmente i loro cittadini. Il Parlamento europeo, infatti, non può avere voce in capitolo, in quanto rappresenta i cittadini dell’Ue e non dei suoi singoli stati membri. La differenziazione trasforma l’Ue in un’organizzazione internazionale. La terza opzione consiste nell’andare oltre i Trattati. Di fronte alla paralisi istituzionale prevista dalla prima opzione e al vuoto di accountability della seconda opzione, un gruppo di stati membri “volenterosi e capaci” decidono di dare vita ad un accordo al di fuori dai Trattati. Un accordo (regolato da un nuovo trattato) che preveda la creazione di un sistema di sicurezza comune, sostenuto da una capacità fiscale indipendente, controllato da istituzioni dotate di una loro autonoma legittimazione democratica. Un accordo tra governi per dare vita ad un sistema sovranazionale di sicurezza, come già previsto dalla Comunità europea della difesa del 1952. È bene che Ursula von der Leyen abbia riconosciuto la necessità di scorporare le spese della difesa dal Patto di stabilità e crescita, non è bene invece che tale scorporo venga gestito dai singoli governi nazionali, frammentando ulteriormente l’Ue. Soprattutto sul piano militare, ci vuole un’istituzione sovranazionale, democraticamente controllata, che possa prendere decisioni “whatever it takes”. Questa terza opzione è l’unica che può dare vita ad un’Europa politica e militare, indipendente dagli americani (pur continuano ad operare nel contesto della NATO). Essa, tuttavia, deve fare i conti con le divisioni interne ai possibili stati “volenterosi e capaci”, a cominciare dalla Francia e dalla Germania, senza la leadership dei quali sarebbe difficilmente realizzabile.
Insomma, in America è in corso una rivoluzione della destra nazionalista che mira a cambiare la struttura e il modo di pensare di quel Paese, ma anche i suoi rapporti con l’Europa. Occorre rispondere a questa sfida pensando fuori dalla scatola delle opinioni scontate. Anche i percorsi più lunghi iniziano con un primo passo.