Judy Chicago’s Work Aged Poorly. That’s a Good Thing.
2 Febbraio 2024LA VITA BUGIARDA DEI NOSTRI FIGLI
2 Febbraio 2024
di Federico Fubini
Molto prima di trasformare George Soros nello spauracchio che manovrerebbe ogni complotto, Viktor Orbán in anni lontani ha studiato a Oxford grazie a una borsa finanziata dallo stesso filantropo ungherese. E si vede. È un aspirante autocrate, regna su un sistema corrotto e brutale, non si fa scrupoli. Nessuno però può accusarlo di essere rozzo. Da decano dei vertici europei, il leader ungherese è bravissimo a leggere gli umori di una sala piena di leader. È abile nel tirare la corda, sa come cercare di estrarre il massimo prezzo malgrado il peso ridotto del suo Paese, ma è altrettanto rapido nel capire quando è il caso di ripiegare e chiudere una partita al più presto. Ieri a Bruxelles Orbán ha intuito che doveva mollare. Se non lo avesse fatto, si sarebbe potuto scordare i 20 miliardi di euro di fondi europei per l’Ungheria che già oggi restano congelati a causa delle forzature antidemocratiche del suo governo. Quei soldi rappresentano più del 10% dell’economia magiara: è come se all’Italia qualcuno avesse bloccato circa 240 miliardi di euro di finanziamenti da Bruxelles. La pressione congiunta della Germania, della Francia e dell’Italia ha messo in chiaro all’uomo di Budapest che stavolta il sistema europeo non si sarebbe lasciato ricattare ulteriormente.
C osì ieri Orbán ha rimosso tutti gli ostacoli al pacchetto di aiuti da 50 miliardi di euro per l’Ucraina, senza aver ottenuto praticamente niente. Le sue linee rosse sono state calpestate tutte, una dopo l’altra. Tra due anni, alla revisione dei fondi per Kiev, l’Ungheria non potrà tentare un altro ricatto. Né godrà dell’esenzione dal costo dei prestiti finanziati dalla Recovery and Resilience Facility (la stessa che in Italia alimenta il Piano nazionale di ripresa).
La giornata di ieri conferma dunque che nell’Unione europea i diritti di veto non si contano ma si pesano, perché i Paesi marginali non possono resistere a oltranza alla massa critica di Germania, Francia, Italia e di tutti gli altri insieme. Ma la lezione più specifica è che per i principali leader europei — Ursula von der Leyen, Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni — l’Ucraina ormai è una questione esistenziale. Meglio di una parte dei loro elettorati, i quattro politici più in vista del Continente capiscono che una vittoria di Vladimir Putin in questa guerra metterebbe in dubbio il futuro stesso dell’Unione europea. Lo avrebbe fatto comunque, anche senza il loro coinvolgimento. Oggi però una sconfitta dell’Ucraina diventerebbe ancora più destabilizzante per le democrazie europee, perché il Cremlino avrebbe dimostrato che può prevalere contro oltre 230 miliardi di euro di aiuti finanziari e militari già forniti a Kiev dai suoi alleati.
Così il fatto stesso che le nostre democrazie siano così impegnate cambia la definizione di vittoria per Putin. Essa non si misura più solo in chilometri quadrati persi o conquistati nel Donbass. Per l’uomo del Cremlino, vittoria oggi è dimostrare di poter imporre il proprio volere contro le risorse di decine di Paesi democratici.
Purtroppo invece meno chiara è oggi una definizione realistica di vittoria per l’Ucraina. Il disegno iniziale di Volodymyr Zelensky prevedeva la riconquista di tutti i territori occupati fino ai confini stabiliti nel 1991 e — implicitamente — puntava su una disfatta russa per provocare la caduta di Putin. Questo scenario oggi non è più credibile. Dall’inizio americani ed europei hanno dimostrato di non volere un collasso della Russia, per le troppe incognite che comporterebbe il caos in una superpotenza nucleare. Poi nel 2023 è arrivata la controffensiva ucraina, costata un alto tributo di sangue ma conclusasi senza i risultati sperati.
Oggi il conflitto ha raggiunto uno stallo che la fa somigliare, in questo, alla Prima guerra mondiale. Il fronte continua a distruggere uomini e risorse con costi immani, eppure è immobile. Zelensky stesso spiega che il suo esercito sta sparando in un anno più proiettili da 155 millimetri di quanti ne produca l’intera industria mondiale degli armamenti. Lui stesso in queste settimane cerca di mobilitare un altro mezzo milione di uomini — a volte con metodi discutibili — senza prospettive realistiche di poter riconquistare con la forza le frontiere del 1991. Non passerà molto tempo prima che la società ucraina chiederà conto al suo leader di quale sia il piano per poter guardare avanti. Oggi sull’Ucraina aleggia lo spettro della guerra fra Iran e Iraq negli anni ‘80 nel Novecento, che costò milioni di vite in otto anni di paralisi delle trincee.
L’Europa ieri ha mosso un passo importante, piegando Orbán e garantendo tutti i fondi che servono a Kiev. Presto però per l’Ucraina può diventare necessaria una nuova definizione di vittoria. Essa implica consolidare il territorio che l’esercito di Kiev ha saputo difendere con enorme coraggio; serviranno poi solide garanzie di sicurezza per il Paese, anche con una forza internazionale di interposizione; e una strada aperta verso l’ingresso nell’Unione europea e la ricostruzione (anche grazie a parte dei fondi sequestrati a Mosca).
La decisione non è solo nelle mani di Zelensky e delle democrazie, purtroppo. A Mosca c’è un aggressore che non dà segni di voler fermare la propria campagna criminale e conta sul ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. L’Ucraina continua dunque a meritare tutto l’aiuto possibile, ma dopo due anni la guerra è in una fase diversa: quando nelle trincee regna lo stallo, diventa ancora più vitale nelle retrovie la capacità politica che ieri l’Europa ha dimostrato a Viktor Orbán.