In questi giorni in cui pronunciamo spesso il nome «Europa» e votiamo per (o contro) quell’idea, dobbiamo ricordare che essa non è un partito e neppure un Parlamento, ma un destino che le molte popolazioni che nei secoli si sono insediate nei suoi territori hanno vagheggiato essere comune, fabbricando strade, lingue, monumenti, culture, accelerando quella sete di unità con proclami e con guerre, con teatri e con musiche, con treni e con terme, con aeroporti, con spiagge e con parchi.
La memoria dell’impero romano, con i suoi anfiteatri e i suoi ponti, i suoi acquedotti e i suoi templi, la ritma ovunque dalla Betica del Guadalquivir all’Anatolia del Monumentum Ancyranum che ricorda ad Ankara le gesta di Augusto. Non sono solo rovine archeologiche: uomini hanno percorso quelle strade e quei miti, con lo stesso intento: trovare un avvenire migliore; basterebbe pensare che coloro che risalgono dalla martoriata Siria, attraverso i Balcani, verso i confini orientali della Unione europea ancora oggi passano accanto, e lungo, la via Egnatia che percorre il Nord della Grecia dal basso Adriatico al mar Egeo.
Ma per misurare quanto in effetti prevalga oggi in Europa ciò che ci unisce rispetto a ciò che ci divide, quanto essa sia una patria comune, se non altro del nostro immaginario di turisti in cerca di bellezza e di sorprese, è utile ripercorrerla con l’occhio di chi l’ha veramente vissuta febbrilmente, da Ronda a San Pietroburgo, come suggeriva un libro curato da Francisco Jarauta, con le parole e le lettere di Rainer Maria Rilke (Praga 1875-Montreux 1926). Ora che stiamo per inebriarci e tuffarci nelle imminenti olimpiadi parigine, ricordiamo come descriveva Rilke quella città in una lettera a Clara Westhoff dell’agosto 1902: «Mi angosciano i molti ospedali sparsi ovunque. Capisco perché tornino sempre in Verlaine, Baudelaire, Mallarmé. Per tutte le strade si vedono ammalati che vanno all’ospedale […]. Lo si avverte all’improvviso che in questa città ci sono eserciti di ammalati, di morenti, popolazioni di morti». Così inizia il saggio del compianto Franco Rella (Rovereto 1944 – 1923) e non dissimile, in foto storiche di eloquente nudità, appare nel volume (al quale hanno collaborato Carolina B. Garcvía-Estévez, Gerhard Wolf, Franco Rella, Thomas Schmidt, Antonio Pau, Francisco Jarauta, Ulrich Baer) il volto dell’Europa di inizio XX secolo, che Rilke fissa così acutamente nelle sue poesie, quasi invocando la fine dell’economia di scambio, per una natura solennemente chiusa nelle proprie viscere: «I re del mondo sono vecchi / e non avranno eredi. // La plebe ne fa moneta. / L’attuale signore del mondo le fonde / nel fuoco per produrre macchine, / astiose serve del suo volere, / ma non sono felici. // Il ferro ha nostalgia. E vuole / abbandonare monete e ruote, / maestre d’una vita meschina, / per tornare da fabbriche e casse / nelle vene delle montagne sventrate / pronte a chiudersi dietro di lui» (Die Konige der Welt sind alt). Lavorare per essere più poveri: quel nodo tormentò l’Europa della prima Guerra mondiale dalla quale uscì ancora più povera: «Tu non sapevi di cosa è fatta / la massa. Là dentro un forestiero / trovò dei mendicanti. Vendono / il vuoto della loro mano» (I mendicanti).
Basterebbe risalire al secolo intercorso per misurare quanto sia stata provvidenziale l’Unione europea; ci fu davvero un periodo, nel primo quarto del XX secolo, in cui parve che l’Occidente fosse all’ultima agonia: lo ricordano qui le pagine della sezione Occidente y su muerte e, in quegli anni, il libro di Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, 1918. E tuttavia Ortega y Gasset, nel suo saggio La ribellione delle masse, 1930, annunciava un processo al quale, pur dopo una seconda terribile Guerra mondiale, siamo giunti: «Il processo creatore delle nazioni ha portato sempre in Europa questo ritmo. Primo momento. Il peculiare istinto occidentale, che fa sentire lo Stato come fusione di vari popoli in un’unità di convivenza e morale, comincia ad agire sui gruppi più vicini dal punto di vista geografico, etnico e linguistico. Non perché questa costituisca la fusione nazionale, ma perché la diversità fra vicini è facile a dominare. Secondo momento. Periodo di consolidamento, in cui gli altri popoli lontani dal nuovo Stato sono sentiti come estranei e più o meno nemici. È il periodo in cui il processo nazionale assume un che di esclusivismo e la tendenza a chiudersi dentro lo Stato, ciò che oggi si chiama nazionalismo. […] A poco a poco campeggia nell’orizzonte la coscienza che questi popoli nemici appartengono allo stesso circolo umano del nostro Stato. Tuttavia si continua a considerarli come estranei ed ostili. Terzo momento. Lo Stato raggiunge un completo consolidamento. Allora sorge la nuova impresa: unirsi ai popoli che fino a ieri erano considerati come nemici».
Il processo è in corso e ancora tentenna, perché oggi manca all’Europa la costruzione dell’interiorità, quella che così nitidamente Rilke aveva intimato: «Vicino è solo il Dentro; tutto l’altro è lontano. / E questo Dentro è denso e quotidiano / folto di cose e del tutto indicibile» (L’isola, III). Di tutte le città di Rilke, Venezia – visitata la prima volta nel 1897 – è forse quella che gli fornì il modello che ancora oggi ci serve per essere europei: ricevere l’alterità, costruire l’interiorità: «Messi stranieri videro con quale avaro metro / misuravano lui e ogni suo atto; / e mentre alla grandezza l’istigavano / circuivano sempre più l’aureo dogado // di controlli e di spie per limitarlo, / paventando l’assalto di quel potere stesso / che in lui (come si tengono i leoni) / cautamente nutrivano. Ma all’ombra // dei suoi sensi assopiti, non vedendo / le loro trame, continuava a farsi / senza tregua più grande. Ciò che la Signoria / credeva in lui domare, egli lo aveva / domato in sé […]» (Ein Doge, da Neue Gedichte, parte II). I leoni più forti son quelli che sanno governare il nostro intimo.