la storia
Flavia Amabile
Venerdì 27 avrei dovuto essere nel Salone d’Onore del Coni alla cerimonia del premio Estra. Avrebbero dovuto consegnarmi un riconoscimento per un articolo scritto un anno fa su La Stampa. Non sono potuta andare, e chiedo pubblicamente scusa al comitato organizzatore per la mia assenza. Venerdì mi stavo ricoverando d’urgenza per un tumore al colon diagnosticato poche ore prima, quando il mio medico ha visto i risultati della colonscopia e poi della Tac. «Ancora un po’ e questa non l’avrebbe raccontata», mi ha detto il medico osservando gli esami. «Ma è arrivata appena in tempo. La risolviamo, non si preoccupi».
Venerdì 27 mi hanno operata, mi sto lentamente riprendendo. Il medico non sapeva che fossi una giornalista, ha usato in modo casuale la parola «raccontare» ma, ora che inizio ad avere le forze, lo faccio davvero. Racconto quello che mi è successo e presto tornerò a raccontare anche altro, come ho sempre fatto nella mia vita.
Racconto del mio tumore non per un improvviso bisogno di riflettori ma per lanciare un allarme, da giornalista quale sono. Da quando il medico ha pronunciato quella frase, sottolineando l’urgenza di intervenire, non smetto di pensare a chi non ha avuto la mia possibilità di essere rapida. Una possibilità legata solo alla capacità di pagare un esame che dovrebbe essere garantito a tutti. Il tumore al colon è il terzo per incidenza e mortalità tumorale nei Paesi occidentali. Più diffusi e pericolosi sono soltanto quello mammario e quello polmonare. Ogni anno in Italia vengono diagnosticati circa cinquantamila tumori al colon ma nel 2020, durante il primo anno di emergenza Covid, c’è stata una riduzione del 45 per cento degli screening e dell’11,9 delle diagnosi di tumore colon-rettale, secondo i dati della Fismad, la Federazione Italiana Società Malattie dell’Apparato Digerente.
Eppure gli esami preventivi sono l’unico modo per scoprire in tempo questo e altri tumori. Io ammetto di avere la colpa di non essermi sottoposta a una colonscopia o ad altre analisi ma, non avevo disturbi, non mi sentivo affatto stanca, mangio carne al massimo tre o quattro volte l’anno, mi nutro di alimenti il più possibile provenienti da contadini fidati, e ho un’età tutto sommato non troppo a rischio. Pensavo di essere tranquilla ancora per un po’ di tempo. Proprio quel tempo che, secondo il medico che ha visto la mia Tac, invece non c’era.
Se ho sbagliato a non sottopormi a un controllo preventivo, ho fatto molto bene – da quello che mi hanno detto i medici – a correre quando ho avuto il primo segnale d’allarme. Era due settimane fa. A quel punto avevo due possibilità: rivolgermi alla sanità pubblica o a quella privata. Se avessi provato a prenotare una visita gastroenterologica nel pubblico, in alcune Asl di Roma avrei dovuto aspettare più di un mese. In altre – forse – sarebbe andata meglio, a giudicare dai dati presenti sul monitoraggio dei tempi di attesa fornito dalla Regione. A questo teorico mese avrei dovuto sommare i tempi di attesa per la colonscopia, nella migliore delle ipotesi almeno un altro mese. E avrei anche dovuto considerarmi fortunata perché in altre Regioni i tempi di attesa sono più lunghi, come abbiamo scritto su questo giornale agli inizi di gennaio. Non mi sono rivolta al sistema sanitario pubblico, sarei arrivata tardi. In questi casi il tempo è tutto. Aspettare vuol dire consentire al tumore di farsi strada, di avanzare. Ho prenotato una visita nel privato. Ho potuto farlo perché ho un lavoro e perché ogni mese dal mio stipendio viene automaticamente prelevato un contributo da versare alla Casagit, la Cassa di assistenza sanitaria integrativa dei giornalisti. Un’assistenza che in tanti hanno capito di dover pagare per avere accesso alle cure in Italia. Secondo un rapporto di Ania, l’associazione nazionale delle imprese assicuratrici, la spesa sanitaria privata ha raggiunto nel 2020 i 38 miliardi di euro, un aumento del 36 per cento rispetto al 2004. Si stima che il numero di cittadini italiani con una copertura sanitaria integrativa sia tra i 17 e i 20 milioni nel 2021, in crescita di circa 4 milioni dal 2017. In particolare, i fondi e le casse di assistenza hanno raggiunto quota 15 milioni lo scorso anno, vale a dire circa il 25 per cento della popolazione italiana. Lo studio Ania mostra anche come quasi il 90 per cento della spesa sanitaria sia stata pagata direttamente dai singoli cittadini che hanno dovuto – o voluto – attingere al patrimonio personale per far fronte alle proprie necessità. L’Italia, infatti, è il paese con la più alta incidenza dell’utilizzo dei risparmi privati per la spesa sanitaria, la media europea è del 74 per cento.
Il mio piccolo caso personale e queste cifre raccontano un’Italia sempre più selettiva, elitaria, con un sistema sanitario pubblico incapace di provvedere ai bisogni dei cittadini. L’articolo 32 della Costituzione ricorda che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Non è quello che accade. Ne abbiamo scritto su questo giornale in queste settimane e continueremo a scriverlo perché un Paese civile e giusto non crea sacche privilegiate di persone che possono curarsi e raccontarlo, e altre che, purtroppo, non hanno questa possibilità.