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20 Gennaio 2024SETTEGIORNI
di Francesco Verderami
La Germania chiede altri fondi per l’Ucraina. Tajani: a queste condizioni di più non si può
Nel clima da campagna elettorale che pervade tutto il Vecchio Continente, il commissario europeo a fine corsa Dombrovskis critica la manovra del governo italiano, mentre il cancelliere tedesco chiama al telefono i partner chiedendo loro di aumentare i fondi a sostegno di Kiev. Ma senza concedere lo scorporo delle spese per la Difesa dal patto di Stabilità. «E se le condizioni non mutano — avvisa il ministro degli Esteri Tajani — noi di più non potremo fare». A due settimane dal Consiglio europeo straordinario, mentre l’Ucraina è sotto il fuoco dei russi, il rigorismo economico di certe capitali fa fuoco di sbarramento sui principi occidentali minacciati da Mosca.
L’ultima volta che il titolare della Difesa Crosetto ha incrociato il responsabile dell’Economia tedesco, lo ha salutato con una triste battuta: «Quando Putin ci invaderà perché non ci saremo difesi, mi auguro non saremo così stupidi da lasciargli i conti in ordine». Raccontano che Meloni abbia provato a giocare di sponda con Macron, conscia che «non ci possiamo permettere di fare la modifica del bilancio solo sull’Ucraina». Anche per lei — nonostante la volontà di aiutare Zelensky — sarebbe economicamente e politicamente complicato sfidare le insidie del Palazzo e l’impopolarità nel Paese.
È il mal comune di quasi tutti i governi dell’Unione, che secondo uno studio del prestigioso Istituto tedesco per l’economia di Kiel hanno marcato un rallentamento nel sostegno a Kiev: tra agosto e ottobre del 2023 c’è stata una riduzione degli impegni del 90% rispetto al 2022. E il peso si è scaricato per la gran parte su Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Paesi dell’Est Europa. Un’altra parte della ricerca del Kiel Institute, elaborata da Ispi e pubblicata dal quotidiano La Ragione, fa capire che più gli Stati sono vicini ai confini di Mosca, più alti sono i finanziamenti per l’Ucraina: in Lituania la spesa pro capite annua è di 168 euro, 163 in Finlandia, 156 in Svezia, 136 in Germania. Solo 14 in Francia e 12 in Italia.
La percezione della minaccia russa sembra così essere il fattore decisivo per le donazioni. Non fosse che le regole di bilancio impediscono in certi casi di agire diversamente. Se non a Parigi, su cui Berlino concentra le sue critiche, di certo a Roma. Ce n’è la prova nelle imprecazioni di Crosetto, l’altro giorno, durante una riunione: «La ferita dell’Ucraina non è stata sanata e ora il pus dilaga». Il riferimento è all’effetto domino internazionale: dal pogrom di Hamas in Israele, alla guerra di Gaza, alle tensioni nel mar Rosso, ai lanci di missili tra Iran e Pakistan, all’azione di accerchiamento cinese su Taiwan.
Il ministro della Difesa si è lamentato del fatto che «abbiamo problemi di soldi anche per ripristinare le nostre scorte. Il governo Conte, quando c’era libertà di bilancio, si era impegnato in sede Nato ad alzare al 2% le spese per il settore. Adesso non siamo nemmeno all’1,5%. Mancano 11 miliardi di euro per centrare l’obiettivo. E se Biden oggi chiude un occhio, cosa accadrebbe domani se tornasse Trump: ci chiederebbe di uscire dal Patto Atlantico?». Un’eventuale rielezione del tycoon è la variabile che suscita «timore» nelle cancellerie europee, come si evince da un dispaccio diplomatico da Berlino: «La salvaguardia dell’indipendenza, della sovranità e della integrità territoriale dell’Ucraina è strettamente connessa agli interessi europei e tedeschi».
Per questo Scholz vorrà battere i pugni a Bruxelles, ma senza farsi carico delle difficoltà economiche altrui. Il problema (emergenziale) ucraino e il problema (strutturale) europeo sono binari paralleli che rischiano di non incrociarsi. A meno che von der Leyen non riesca a trovare una soluzione di compromesso. Un autorevole ministro italiano ricorda che si sta discutendo «il piano da 50 miliardi per la ricostruzione a favore di Kiev: siccome quei soldi per ora sono inutilizzabili perché è in corso il conflitto, una parte potrebbe essere dirottata per gli armamenti».
Le trattative nell’Unione sono sempre complesse. Nel mar Rosso gli Houthi spadroneggiano e l’Europa non si è ancora messa d’accordo sulla spedizione navale da inviare in quelle acque strategiche.