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22 Maggio 2024Stragi del ’93, “Mori conosceva il piano bombe, ma per 9 mesi evitò di indagare”
22 Maggio 2024Le inchieste
di Giovanni Bianconi
Anche l’ultima ipotesi richiama il contesto della trattativa Stato-mafia
Roma
Vent’anni e più da indagato e imputato, sempre assolto, e non è ancora finita. Dopo la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, il mancato arresto di Bernardo Provenzano, un concorso esterno in associazione mafiosa poi sfociato nella più grave «minaccia a corpo dello Stato» per la presunta trattativa Stato-mafia, ecco l’ipotesi di accusa più dirompente per le stragi del 1993: concorso per omissione; seppe in anticipo che Cosa Nostra avrebbe attaccato i luoghi d’arte sulla Penisola ma non fece nulla per impedirlo. E nemmeno trasmise l’allarme alla magistratura.
È come se l’ottantacinquenne generale dell’Arma in congedo Mario Mori, nonché prefetto già capo del servizio segreto civile, fosse costretto a tornare alla casella di partenza in un virtuale gioco dell’oca dove l’antimafia diventa complice della mafia. Da Palermo si è passati a Firenze, ma la trama è sempre la stessa: la strategia investigativa del Ros e del suo capo operativo al tempo delle stragi, che contemplava l’uso di fonti interne a Cosa Nostra o blitz ritardati per andare più a fondo negli interventi repressivi, divenne un’arma nelle mani dei boss per continuare a ricattare le istituzioni a suon di bombe e ottenere benefici. Una tesi che trova sostenitori e detrattori, tutti in grado di citare la sentenza (o qualche sua parte) che preferiscono.
Mori ha dalla sua quella con cui la Cassazione, il 27 aprile 2023, ha messo il sigillo sulla sua assoluzione (insieme ai coimputati Antonio Subranni e Giuseppe De Donno) per la cosiddetta trattativa: «La mera apertura di un’interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra — vi si legge tra l’altro — non può ritenersi idonea di per sé a determinare l’organizzazione criminale a minacciare il governo, un assunto non fondato su alcuno specifico dato probatorio». Tuttavia ce n’è un’altra, ugualmente definitiva, pronunciata a Firenze nel 1998 proprio per le stragi sul continente, dove si afferma sostanzialmente il contrario: il contatto stabilito da Mori e De Donno con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino aveva convinto Riina e compari che gli attentati davano buoni frutti, perché dopo Capaci e via D’Amelio lo Stato «si era fatto sotto» per provare a dialogare.
Corsi e ricorsi
Contesto già vagliato,
ma la Procura
di Firenze avrebbe raccolto altri elementi
«Questo convincimento — hanno scritto i giudici fiorentini — rappresenta il frutto più velenoso dell’iniziativa del Ros che, nonostante le più buone intenzioni ebbe sicuramente un effetto deleterio per le istituzioni, confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato. Prova ne sia che, appena i “corleonesi” intravidero difficoltà nella conclusione della trattativa (cioè, nella soddisfazione delle loro pretese) pensarono a un’altra strage per “stuzzicare” la controparte». Così si spiegano il fallito attentato a Pietro Grasso e, l’anno successivo, le stragi di Firenze, Roma e Milano. Che ora Mori è accusato di non aver evitato dopo gli avvertimenti del maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta e del mafioso pentito Angelo Siino. Che però ne hanno parlato anni addietro, e le loro dichiarazioni sono state già scandagliate nei processi contro Mori. Evidentemente i pm di Firenze hanno raccolto ulteriori elementi che li hanno spinti a re-indagare il generale.
Una mossa che ha già scatenato le prevedibili polemiche politiche sulla asserita persecuzione contro un investigatore divenuto, nell’immaginario alimentato dalle iniziative delle Procure, icona di un’antimafia ambigua e dialogante col nemico. Suo malgrado e anche per effetto di certe sue affermazioni fatte, da testimone, proprio nel primo processo di Firenze. Descrivendo il primo incontro con Ciancimino, Mori ricordò di avergli detto: «Ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è un muro contro muro, da una parte Cosa Nostra e dall’altra parte lo Stato, ma non si può parlare con questa gente?». L’ex sindaco si mostrò disponibile: «Dice: “Ma sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo”… Dissi: “Allora provi… Vada avanti”. Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa».
Ecco, la parola chiave — trattativa — la pronunciò lui stesso, e per certi versi c’è rimasto impigliato. In vent’anni e più di indagini e dibattimenti, quelle sue frasi sono state ripetute come un mantra dai rappresentanti dell’accusa, ma per il generale e i suoi sostenitori valgono e varranno sempre altre parole. Come quelle pronunciate dal suo avvocato Basilio Milio aprendo l’arringa nel primo grado del processo-trattativa e pubblicate nel libro Ho difeso la Repubblica: «Questo non è un processo, ma rappresenta il tentativo di ricostruire la storia non secondo verità ma secondo una ben definita impostazione politico-ideologica. E come diceva uno scrittore: “L’ideologia è il più duro carceriere del pensiero”». Sembrava finita, ma non lo è. Ora nuovi pm ritengono doverosi ulteriori accertamenti su un capo d’accusa collegato se non gemello. E nuove polemiche sono assicurate.