Si stava meglio quando si stava peggio? Per decenni, milioni di italiani si sono augurati di «non morire democristiani». Salvo poi forse rimpiangere – visto quanto subentrato – la competenza, la moderazione (anche linguistica) e la laicità di una classe politica che, malgrado tutto, era riuscita a traghettare l’Italia dalla catastrofe del fascismo e della guerra a una democrazia quasi compiuta. Del resto, come spiegava Franco Venturi, se per cogliere le radici di un periodo storico occorre prima di tutto ricostruire le biografie dei suoi protagonisti, scopriamo che quasi tutti i maggiori esponenti Dc – Fanfani, La Pira, Segni, Leone, Lazzati, Taviani, Moro, Gerardo Bianco, Sergio Mattarella, ecc. – erano anche cattedratici. Una cosa del tutto impensabile ai giorni nostri, quando basta un diploma alberghiero per sognare una carriera da statisti.
Ora un corposo libro scritto a sei mani dagli storici Guido Formigoni, Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio – integrando ricerche già esistenti con nuove fonti d’archivio e memorialistiche – offre «un primo assestamento critico» sulla parabola della Dc, vera e propria stella fissa nell’universo della politica nostrana. La principale caratteristica del loro volume è appunto quella di concentrarsi sul partito (il quale, pur non avendo una specifica data di fondazione, cominciò ad acquisire contorni più definiti tra la fine del 1942 e i primi mesi del 1943): tenendolo ben distinto, per quanto possibile, non soltanto dalla Chiesa Cattolica, ma anche dal governo e dalla società. Forse, come risulta pure da queste pagine, uno dei segreti della longevità della Dc risiede proprio nella sua peculiare struttura – autonoma, interclassista e plurale – che ne fece il «partito italiano» per antonomasia (Agostino Giovagnoli).
La Dc conobbe una primigenia fase eroica, poi un’interminabile stagione prosaica, e infine un repentino declino. La fase eroica, va da sé, fu quella degasperiana (1943-1955), allorché si trattò di far risorgere dalle ceneri del defunto Partito Popolare una nuova forza politica d’ispirazione cristiana, destinata al trionfo elettorale del 18 aprile 1948 contro comunisti e socialisti.
Nell’Italia del secondo dopoguerra, la proposta centrista di De Gasperi dovette affrontare non pochi marosi. Le interferenze di una Chiesa che sognava ancora una «reconquista» e non nascondeva la propria simpatia per modelli istituzionali non proprio democratici, ispirati all’«estado novo» del Portogallo di Antonio Salazar. Un bacino elettorale assai più conservatore e afascista della classe dirigente democristiana. E in più, sino al 1951, la «fronda» interna della sinistra di Giuseppe Dossetti. Nonostante questo, lo statista trentino riuscì a tenere sempre la barra dritta, escludendo dall’amministrazione dello Stato i «socialcomunisti», ma evitando, nel contempo, anche la deriva clericale e destrorsa vagheggiata Oltretevere.
Il periodo prosaico sopraggiunse con la scomparsa di De Gasperi (1955) e si prolungò per decenni: «La Dc si identificò progressivamente in modo sempre più stretto con il governo del Paese». Questo rappresentò la sua forza, ma pure la sua condanna (come ammetterà anche Aldo Moro). La storia della Dc, da Fanfani a Moro, da Andreotti a De Mita, diventa così, anche in questo libro, una logorante partita a scacchi fra le sue correnti. Essendosi trasformato in un (immobile) «partito-Stato», la Dc – come scrisse lo storico Silvio Lanaro – inglobava tutti i programmi e tutti gli schieramenti possibili. Ma la Dc, avvertono gli autori, fu anche un «partito-Società», in grado di «interpretare e collegare istanze, bisogni, miti» di un Paese protagonista di una straordinaria modernizzazione. La capacità di tenere sempre uniti questi due aspetti – le leve dello Stato e l’egemonia nella società – fu probabilmente uno degli altri motivi all’origine del primato democristiano, mai intaccato dai socialisti, nonostante il loro ingresso –, con l’esordio del centro-sinistra (1963) – nella «stanza dei bottoni».
Come ben spiegato dagli autori, il crollo del sistema politico italiano nel 1992-93 non fu il frutto di un complotto giudiziario, ma – diremmo con Tocqueville – l’accelerazione finale di un processo che si trascinava da almeno un decennio. Il tracollo dell’Impero sovietico, un’economia della corruzione giunta a livelli intollerabili, le stragi di mafia, la marea montante dell’antipolitica, l’erosione elettorale subita dai partiti di governo nel 1992, furono tutti fattori concomitanti che provocarono il collasso di un quadro ormai consunto e lo scioglimento formale, il 26 luglio 1993 all’Eur, della stessa Dc.
A differenza dei socialisti, i democristiani vissero con una certa dignità l’eclissi del loro mondo. Gli Andreotti e i Forlani si difesero sempre nel processo, non dal processo, senza gridare alla «magistratura politicizzata». Questo perché sapevano che sarebbe stato controproducente delegittimare le istituzioni che essi stessi avevano incarnato per tanto tempo. I loro successori (perlopiù berlusconiani), invece, riusciranno a cancellare quel residuo senso dello Stato e della legalità sopravvissuti alle macerie di Tangentopoli, sdoganando gli umori reazionari e anti-sistema allignanti nel sottosuolo nostrano. Verso i quali la Dc – occorre riconoscerlo – aveva pur sempre costituito un argine.
PS. Gli autori avrebbero forse potuto dedicare un capitoletto finale alla «Dc dopo la Dc», ossia al revival delle idee e delle pratiche democristiane in diversi partiti della seconda repubblica. Ma in effetti, senza più il loro contenitore originale, si è trattato di una sopravvivenza spuria.
Guido Formigoni, Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio
Storia della Democrazia
Cristiana 1943-1993
il Mulino, pagg. 714, € 38